La Cop28 è finita, ma bisogna essere consapevoli del fatto che il vero test risiede altrove. Dalla disinformazione al ruolo delle città, ciò che conta avviene lontano dai riflettori.
Se non agiamo, i cambiamenti climatici affosseranno le nostre economie
Uno studio di Christian Aid indica l’impatto della crisi climatica sui paesi più poveri. Nel frattempo, i negoziati alla Cop26 di Glasgow segnano il passo.
I cambiamenti climatici graveranno come macigni sulle economie, ben più di quanto abbia fatto la pandemia tra il 2020 e il 2021. E a patire le conseguenze peggiori saranno le nazioni più povere e vulnerabili della Terra. Nonostante esse siano anche le meno responsabili delle emissioni di gas ad effetto serra e del conseguente riscaldamento globale. A confermarlo è uno studio pubblicato dall’organizzazione non governativa Christian Aid mentre è in pieno svolgimento la ventiseiesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop26 di Glasgow.
Nei paesi più poveri il Pil potrebbe crollare dell’80 per cento
Il rapporto – che ha calcolato l’impatto in termini di contrazione economica in 65 nazioni particolarmente esposte di fronte alla crisi climatica – indica in particolare che il calo medio del prodotto interno lordo, al 2050, sarà pari al 19,6 per cento, se si seguirà la traiettoria attuale in termini di aumento della temperatura media globale. E si arriverà al 63,9 per cento alla fine del secolo. Valore che per alcuni paesi, in particolare sei dei dieci più vulnerabili, tutti africani, potrebbe risultare superiore all’80 per cento. Il che equivarrebbe ad un sostanziale annientamento economico.
Ma anche qualora si dovesse centrare l’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi – ovvero limitare il riscaldamento globale al 2100 ad un massimo di 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali – si andrà incontro ad una diminuzione media del Pil del 13,1 al 2050 e del 33,1 per cento 50 anni più tardi. D’altra parte le perdite e i danni che patiranno le nazioni in via di sviluppo sono già state valutate tra 290 e 580 miliardi di dollari all’anno, di qui al 2030, e potrebbero raggiungere i 1.700 miliardi alla metà del secolo.
Sulle compensazioni per i danni, la Scozia rompe un tabù
È anche per questa ragione che dai governi che partecipano alla Cop26 di Glasgow ci si attendono impegni concreti al fine di mantenere la promessa avanzata nell’ormai lontanissimo 2009. All’epoca, in occasione della Cop15 di Copenaghen, le nazioni ricche del mondo accettarono di trasferire 100 miliardi di dollari all’anno a quelle più povere per consentire loro di adattarsi ai cambiamenti climatici. Ebbene, tale somma non è mai stata stanziata per intero.
Di recente, il segretario generale dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), Mathias Cormann, ha fatto sapere che neppure nel 2019 la quota minima ipotizzata 12 anni fa è stata raggiunta. Il mondo ricco ha concesso solamente 79,6 miliardi di dollari. E anche per il 2020 le prime stime non sono positive.
Dai paesi ricchi due voci alla Cop26: quella ai microfoni e quella nei negoziati
Da anni, nel corso delle Cop, in molti chiedono che venga creato un meccanismo specifico per aumentare gli aiuti diretti alle nazioni più in difficoltà. Ma di fronte alle difficoltà diplomatiche, c’è chi ormai propone di tentare la via degli accordi bilaterali. La Scozia, che ospita la Cop26, ha ad esempio promesso un versamento simbolico di un milione di sterline: una goccia nel mare, ma che ha il merito di rompere in questo senso una sorta di tabù.
La scarsa coesione tra i paesi è d’altra parte palpabile alla Cop26 di Glasgow. La seconda settimana di negoziati della Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite è infatti teatro di una serie di scontri tra governi. In primo luogo tra il Nord e il Sud del mondo: le nazioni meno sviluppate hanno puntato a chiare lettere il dito contro i paesi più abbienti. Nel mirino la “distanza tra le dichiarazioni di alcuni governi e le azioni reali. Esiste una disconnessione tra le promesse avanzate pubblicamente e ciò che accade invece in seno ai negoziati”, ha affermato Sonam Phuntsho Wangdi, presidente del gruppo che riunisce gli stati meno avanzati economicamente.
L’Australia gela la Cop26: “Useremo il carbone per decenni”
Un altro scontro è quello legato alla fonte di energia fossile più inquinante in assoluto: il carbone. Se 40 nazioni hanno annunciato la volontà di abbandonarne gradualmente l’uso, l’Australia ha fatto calare il gelo sui negoziati. In un’intervista concessa all’emittente ABC, il ministro delle Risorse naturali australiano, Keith Pitt, ha dichiarato senza mezzi termini che la propria nazione continuerà a sfruttare il carbone ancora per decenni: “Abbiamo detto a chiare lettere che non chiuderemo né le nostre miniere, né le nostre centrali”.
Pitt ha quindi giustificato la propria decisione affermando che il carbone australiano, a suo avviso, sarebbe “migliore” rispetto alla concorrenza: “Preferisco che si tratti di un nostro prodotto, di alta qualità, capace di creare posti di lavoro australiani e di sviluppare l’economia australiana, piuttosto che proveniente dall’Indonesia, dalla Russia o da altre nazioni”. Il ministro ha quindi aggiunto come, a suo avviso, la domanda mondiale continuerà a crescere di qui al 2030.
Un miliardo di persone patirà il caldo estremo anche con un riscaldamento globale di “soli” 2 gradi
Infine, martedì 9 novembre è stato presentato alla Cop26 di Glasgow uno studio del Met Office, il servizio meteorologico britannico. L’analisi spiega che se la temperatura media globale dovesse crescere di 2 gradi centigradi alla fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali, il numero di persone sottoposte in tutto il mondo a ondate di caldo estremo sarebbe quindici volte superiore ad oggi.
Complessivamente, prosegue il Met Office, un miliardo di esseri umani soffrirebbe tale fenomeno, ovvero una combinazione di temperatura elevata e alto tasso di umidità: le condizioni più difficili da sopportare per l’organismo. Ma la situazione è perfino peggiore: un’analisi pubblicata da Climate action tracker indica che, sulla base delle attuali promesse di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra avanzate dai governi, la traiettoria porterebbe ad un aumento della temperatura media sulla Terra di 2,4 gradi centigradi.
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