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C’è chi ha paura che la Cop27 si dimentichi della mitigazione, cioè del taglio delle emissioni. Ma è davvero così?
“Il Patto di Glasgow su clima riconosce che limitare il riscaldamento globale a 1,5 gradi richiede riduzioni rapide, profonde e sostenute delle emissioni globali di gas serra, compresa la riduzione delle emissioni di anidride carbonica del 45 per cento al 2030 rispetto ai livelli del 2010 e di raggiungere la neutralità climatica verso metà secolo”.
L’anno scorso Alok Sharma, presidente della Cop26 di Glasgow ci aveva lasciato così. Per qualcuno, però, quell’obiettivo sarebbe già sfumato. Perché? Perché in questi giorni circola la notizia che l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura entro gli 1,5 gradi sia ormai impossibile da raggiungere. L’ha scritto prima l’Economist – dedicandoci una copertina. L’ha poi dedotto Bbc da un’analisi fatta da Carbon Brief sui testi che comporranno l’accordo finale: sembra che quest’anno nelle bozze manchi una dichiarazione esplicita sulla necessità di tenere in vita questo obiettivo, al contrario di quanto scritto nel Patto di Glasgow nel 2021. E va sottolineato che a essere preoccupate sono tutte testate britanniche che, è ipotizzabile, non vogliano veder compromesso quanto raggiunto dalla presidenza del Regno Unito alla Cop26.
Faccio un passo indietro, però, chiedendo aiuto ai dati e ai fatti. Nell’Accordo di Parigi è presente la frase “ben al di sotto dei due gradi”, poi per consuetudine si è scelto di fissare come obiettivo primo gli 1,5 gradi per tenere alta l’ambizione e dare più valore agli scienziati che ci hanno mostrato cosa cambierebbe per solo mezzo grado in più: ad esempio raddoppierebbe il numero di persone che non avrebbero accesso all’acqua, mentre la popolazione a rischio caldo estremo passerebbe dal 14 per cento del totale al 37 per cento. Fino alla possibilità di avere estati artiche senza ghiaccio una volta ogni dieci anni invece che ogni cento.
Well below 2, preferably to 1.5 degrees Celsius
Ciò che che farebbe propendere per la tesi dell’Economist, cioè che l’obiettivo degli 1,5 gradi sia ormai impossibile da raggiungere, è il fatto che già oggi l’aumento sia pari a circa 1,2 gradi e considerando che in questi anni abbiamo aumentato le emissioni anziché averle ridotte, è facile immaginare che nel prossimo futuro non saremo in grado di fare quello che era previsto sommato a quello che ancora non siamo riusciti a fare. Insomma, siamo a un punto della narrazione dove tutto sta andando storto.
Chiara Di Mambro, responsabile di decarbonizzazione di Ecco, think tank italiano che si occupa di clima, che ho incontrato qui alla Cop27 di Sharm el-Sheik, mi ha spiegato che “qui si sta parlando di cambiare il paradigma del nostro modello economico. È una cosa complicata che non va banalizzata. E in quelle stanze, nelle stanze dove si tengono i negoziati tutto ciò si tocca con mano”.
Inoltre va compreso cosa guida l’agenda di una Cop, a seconda del paese che la ospita. Se si tiene in un paese industrializzato – e quindi responsabile delle emissioni – è normale che si parli molto di mitigazione, cioè di come e di quanto ridurre la CO2 e gli altri gas serra. Ma quando la Cop si svolge in un paese in via di sviluppo l’agenda viene da subito incentrata sull’adattamento, cioè su come adeguarsi a un clima che è già cambiato. Questo perché l’Egitto e altri paesi africani sono responsabili dell’attuale concentrazione di gas serra in atmosfera in modo infinitesimale, mentre sono tra i più vulnerabili alle conseguenze della crisi climatica. Ecco perché qui, alla Cop27 di Sharm el-Sheik, è più difficile basare la discussione sull’aumento delle promesse di riduzione, mentre è più facile concentrarsi sul tema loss and damage, cioè sulle perdite e i danni subiti dai paesi più esposti agli eventi climatici estremi e sui soldi necessari per farvi fronte.
Secondo Di Mambro, quindi, non è possibile escludere che l’obiettivo del grado e mezzo venga raggiunto, anche se le azioni sul campo sono rallentate rispetto a quanto ci si potesse aspettare. “Tuttavia, bisogna sempre mettere in prospettiva i bisogni e le aspettative di tutti i paesi – conclude Di Mambro – che partecipano a questo processo, compresi i paesi in via di sviluppo che non hanno contribuito allo stesso modo al riscaldamento globale. Per questi paesi l’azione relativa ai cambiamenti climatici si traduce nell’integrare la decarbonizzazione nel modello di sviluppo. Quindi hanno necessità di finanziamenti, di meccanismi che li tutelino, li proteggano e consentano lo sviluppo anche a valle di eventi climatici estremi di cui sono comunque le prime vittime”.
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