Come funziona il meccanismo di loss and damage istituito alla Cop27, il fondo per risarcire i paesi poveri per perdite e danni dovuti alla crisi climatica.
Era la grande sfida della Cop27 di Sharm el-Sheik, in Egitto. Una sfida che, inaspettatamente e al prezzo di pesanti compromessi, è stata vinta. Nella notte tra sabato 19 e domenica 20 novembre, la ventisettesima Conferenza delle parti sul clima ha adottato un documento che istituisce il meccanismo di loss and damage, cioè un fondo per il risarcire le perdite e dei danni subìti dai paesi che sono meno responsabili del riscaldamento globale ma subiscono i suoi danni peggiori.
Cosa si intende di preciso per loss and damage? Troviamo una spiegazione nel sito della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Unfccc. I cambiamenti climatici di origine antropica hanno già avuto un impatto sulla natura e sulle persone, provocando perdite e danni che vanno ben al di là di quelli che sarebbero giustificabili sulla base dell’usuale variabilità del clima. Tra i fenomeni che possono provocare perdite e danni ci sono sia gli eventi meteo estremi, come uragani, cicloni o ondate di caldo e siccità, sia i cambiamenti che si svolgono su un arco di tempo più lungo, come l’innalzamento del livello dei mari, il ritiro dei ghiacciai, la desertificazione e l’acidificazione degli oceani.
Gli sforzi compiuti per l’adattamento possono rendere i territori meno vulnerabili, ma ciò non toglie che alcuni impatti siano irreversibili, perché spingono le comunità umane e i sistemi naturali ben oltre la propria capacità di reazione. Se anche la comunità internazionale riuscisse a tagliare le emissioni di gas serra in misura compatibile con un aumento della temperatura media globale di 1,5 gradi, come chiesto dalla scienza, le perdite e i danni verrebbero ridotti ma non azzerati. In un’ottica di giustizia climatica, dunque, bisognerebbe riuscire a quantificare queste perdite e questi danni, stabilire le responsabilità (a occuparsene è la scienza dell’attribuzione) e risarcire chi li ha subiti o li subirà.
I pilastri ora sono 3: mitigazione, adattamento, loss and damage
Nel termine ombrello di mitigazione sono comprese tutte le scelte volte a frenare il riscaldamento globale, diminuendo le emissioni in atmosfera dei gas serra che ne sono responsabili. Fare mitigazione dunque significa installare pannelli solari o pale eoliche, guidare auto elettriche, piantare alberi e fare qualsiasi altra scelta orientata alla decarbonizzazione.
Viceversa, l’adattamento consiste nelle tecnologie e nei processi che limitano i danni provocati dagli eventi meteo estremi: si tratta per esempio di sistemi di allerta preventiva che consentono alla popolazione di mettersi in salvo prima dell’arrivo di un ciclone, colture resistenti alla siccità e così via.
Con la Cop27 si istituisce ufficialmente il terzo pilastro, cioè la riparazione dei danni che si sono già verificati a causa della crisi climatica o che inevitabilmente si verificheranno in futuro. Il loss and damage, appunto, che si dovrà concretizzare in un trasferimento di risorse finanziarie dai paesi industrializzati verso i paesi in via di sviluppo.
— Loss and Damage Collaboration (L&DC) (@LossandDamage) November 20, 2022
Chi è responsabile dei cambiamenti climatici
Se l’aumento della temperatura media avviene su scala globale, perché alcuni paesi dovrebbero risarcirne altri? Perché i dati scientifici dimostrano che non c’è equilibrio tra chi è storicamente responsabile dell’elevata concentrazione di gas serra in atmosfera e chi è più vulnerabile alla crisi climatica che è la sua diretta conseguenza. Nello specifico, dal 1751 (cioè dalla rivoluzione industriale) al 2017 gli Stati Uniti, da soli, hanno riversato in atmosfera 399 miliardi di tonnellate di CO2, seguiti da Unione europea e Regno Unito a quota 353 miliardi; la percentuale sulle emissioni cumulative è dunque rispettivamente del 25 e del 22 per cento. Al terzo posto c’è la Cina con 200 miliardi di tonnellate di CO2, il 12,7 per cento del totale; il suo status è ibrido perché formalmente risulta ancora un paese emergente, pur essendo ormai la seconda economia globale per prodotto interno lordo (pil). Viceversa, l’intero continente africano raggiunge appena il 3 per cento delle emissioni storiche globali.
La classifica di chi paga il prezzo della crisi climatica, tuttavia, si capovolge. Dal 1991 in poi il numero di disastri climatici che colpiscono annualmente le zone più povere del pianeta è più che raddoppiato, causando 676mila morti. In proporzione, significa che il 79 per cento delle vittime accertate vive in un paese in via di sviluppo. Se si considerano non solo i decessi ma più in generale le persone che sono state colpite, perché per esempio hanno subito danni alla propria casa o ai campi agricoli da cui ricavano il cibo, si arriva a 189 milioni di persone ogni anno, il 97 per cento del totale globale.
La prima volta in cui si discusse della possibilità di istituire un meccanismo risarcitorio per i danni dei cambiamenti climatici era il 1991. All’epoca, a proporlo alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) erano state le isole Vanuatu. Al Summit della terra di Rio de Janeiro, l’anno successivo, si stabilisce il principio delle responsabilità comuni ma differenziate (common but differentiated responsibilities), uno dei pilastri del diritto ambientale internazionale. Si mette quindi nero su bianco che tutti gli stati hanno la responsabilità di affrontare la crisi ambientale, ma sono chiamati a contribuire in modo commisurato alle loro condizioni socio-economiche e alle loro emissioni storiche.
Bisogna aspettare la Cop13 di Bali, nel 2007, perché l’espressione loss and damage compaia per la prima volta in un documento formale dell’Unfccc, benché inserita sotto il cappello dell’adattamento e senza tradursi in alcuno stanziamento effettivo di denaro. Nel 2010 viene istituito il fondo verde per il clima con cui i paesi industrializzati si impegnano ad aiutare quelli in via di sviluppo in materia di mitigazione e adattamento: il progetto va avanti però a rilento, tant’è che ancora nel 2022, a 12 anni di distanza, non sono ancora stati erogati tutti i finanziamenti promessi.
Nel 2013, alla Cop19, si istituisce il Meccanismo internazionale di Varsavia per perdite e danni associati agli impatti dei cambiamenti climatici. La proposta arriva dal G77 e dalla Cina ma viene annacquata rispetto alla sua formulazione originaria e non include alcun meccanismo finanziario. L’Accordo di Parigi per la prima volta separa il loss and damage dall’adattamento, nell’articolo 8. Ma il principio rimane espresso solo in astratto e non ce n’è traccia nemmeno nel Patto di Glasgow del 2021.
Cosa è stato deciso alla Cop27 sul loss and damage
Insomma, il tema ricompare nei negoziati più volte per trent’anni, senza mai giungere a un’adozione formale. Questo passo avanti storico è stato segnato nelle ultime frenetiche ore della Cop27. Non è stato un caso che una misura simile fosse al centro di una Conferenza che si è svolta in Egitto e che per questo è stata ribattezzata dal suo presidente, Sameh Shoukry, come “la Cop africana”.
Bene che si sia trovato un primo accordo sul tema del loss&damage. Chi ha rotto il clima deve pagare i danni. Ora non lo si affoghi con ritardi e omissioni.
Molto male tutto il resto. Non ci saranno mai abbastanza soldi per aggiustare un mondo a +3°C.
Per ora l’accordo stabilisce soltanto la creazione di un fondo sul loss and damage che si inserisce nel quadro dell’Accordo di Parigi. Alla chiusura del negoziato, però, non è ancora chiaro chi dovrà erogare i fondi, chi li dovrà gestire, quanti soldi verranno dati, a chi e a quali condizioni. Un apposito Comitato di transizione composto da 24 membri, 14 dei quali dei paesi del sud del mondo, avrà il compito di definire una tassonomia delle perdite e dei danni compensabili. Il Comitato ha tempi molto stretti per dirimere tali questioni, perché il fondo dovrà essere operativo entro la Cop28 che si terrà a Dubai nell’inverno 2023.
La spaccatura tra i paesi industrializzati ed emergenti
Il nord e il sud del mondo erano arrivati alla Cop27 profondamente divisi. Da un lato c’erano i paesi in via di sviluppo, compatti nel domandare un fondo che potesse erogare i finanziamenti in fretta non appena ce n’era bisogno a causa di un disastro naturale. Dall’altro lato c’erano Unione europea e Stati Uniti che avrebbero preferito coinvolgere strumenti e istituti finanziari già esistenti invece di crearne uno nuovo. Nella mattina di venerdì 18 novembre, il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans ha annunciato un inaspettato cambiamento di rotta: l’Unione avrebbe sostenuto l’istituzione di un fondo.
I don't in any way want to diss the great success by poorer nations in achieving a Loss and Damage agreement (though I recognise that rich nations will break their promises to pay). But there was *no progress* on stopping climate breakdown. COP27 is another terrible failure.
Per rendere possibile uno strumento finanziario di questo tipo, però, la base dei donatori dovrebbe essere allargata fino a comprendere anche quegli Stati che nel 1992, quando è nata l’Unfccc, erano esonerati da obblighi di sorta in materia di emissioni perché classificati come emergenti. Prima fra tutti, la Cina. Cina che però, spiega un’analisi del Guardian, continua a vedere schierati dalla sua parte i 134 membri del cosiddetto G77, la coalizione che riunisce gli stati in via di sviluppo.
Il problema di fondo, ricordato anche dal segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres, sta nel fatto che i paesi emergenti si sono sentiti traditi. Per tanti motivi. Perché il fondo verde per il clima istituito nel 2009 non ha mai funzionato fino in fondo, perché nell’ultimo biennio hanno ricevuto solo le briciole delle poderose misure di lotta contro la pandemia (in termini sia di vaccini, sia di finanziamenti), perché sono stati travolti loro stessi dalla crisi dell’energia. Ma nessuno ha mai pensato di alleggerire il loro debito estero.
Le catastrofiche alluvioni avvenute in Pakistantra settembre e ottobre del 2022 hanno rafforzato questa convinzione e, probabilmente, sono state tra i fattori che hanno contribuito al raggiungimento dell’accordo. 33 milioni di persone coinvolte, 1.500 morti, danni stimati in 40 miliardi di dollari. Tutto questo in un paese che storicamente è responsabile dello 0,28 per cento delle emissioni di CO2.
La Cina sarà contribuente o beneficiaria del fondo?
La posizione più in bilico è quella della Cina. E le scelte che verranno prese in merito potranno determinare il successo o l’insuccesso del fondo per il loss and damage. I dati dicono che nel 2021 il gigante asiatico ha emesso 11,47 miliardi di tonnellate di CO2, contro i 2,79 miliardi dell’Unione europea e i 5,01 miliardi degli Stati Uniti. Guardando le emissioni pro capite, però, gli Stati Uniti tornano prepotentemente in testa alla graduatoria con 14,86 tonnellate di CO2 per ogni singolo individuo, contro le 8,05 di un cittadino cinese. Una quantità effettivamente vicina a quella di altre economie emergenti, come Turchia e Iran, e a buona parte degli stati europei tra cui l’Italia.
Formalmente, la Cina è un’economia emergente e insiste per continuare a essere considerata come tale. Anche durante la Cop27, l’inviato speciale per il clima Xie Zhenhua avrebbe ribadito che il suo paese non ha alcun obbligo di contribuire al fondo, pur essendo intenzionato a supportare le nazioni a più basso reddito. Gli Stati Uniti sono di opinione opposta.
Quanti soldi servono e chi li deve erogare
Al momento, dunque, non ci sono ancora certezze su come funzionerà il fondo. Innanzitutto bisogna fare una stima dei danni. Un report stilato da 55 nazioni vulnerabili li quantifica in 525 miliardi di dollari negli ultimi due decenni, cioè il 20 per cento del loro prodotto interno lordo (pil) cumulativo.
Sono state avanzate diverse ipotesi anche su chi dovrà pagare e come. Mia Mottley, prima ministra di Barbados, alla Cop27 ha chiesto di mettere le compagnie petrolifere di fronte alle proprie responsabilità. Questo il passaggio chiave del suo discorso: “Com’è possibile che le aziende che hanno registrato profitti per 200 miliardi di dollari nell’arco degli ultimi tre mesi non si aspettino di contribuire a un fondo per perdite e danni almeno con 10 centesimi per ogni dollaro di profitto?”.
Una volta definiti i soggetti che dovranno erogare i fondi e quelli che li dovranno ricevere, bisognerà anche costruire un organismo di gestione che definisca nel concreto quando e in che forma effettuare i pagamenti. Una possibilità, sostenuta anche dal governo italiano, è quella di costruire una sorta di fondo assicurativo.
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