Enrico Rava. Quando mi innamorai del jazz

Una piacevole intervista con il jazzista italiano Enrico Rava.


Sta per uscire con Ecm (l’etichetta di Keith Jarrett, Jan Garbarek,
Pat Metheny) il disco in quintetto, “Tribe”. Enrico Rava, quando ti
sei innamorato del jazz?

Mi sono innamorato del jazz a 8-9 anni perché c’erano in
casa dei dischi di mio fratello, appassionato di jazz. Da subito
è scattata questa passione che è diventata una monomania,
collezionando dischi, fotografie. Ho incominciato molto tardi a
suonare, quando ho comprato la prima tromba avrò avuto 18
anni. Le prime esperienze le ho fatte in Italia, ho iniziato
a suonare con Gato Barbieri, poi con Steve Lacy, che mi ha portato
a New York. Sono andato lì con un musicista di serie A e
questo mi ha aperto subito tutte le porte dei grandi e mi sono
trovato a suonare con quelli che erano i miei idoli da subito.
All’inizio era come essere in un film, un film in cui il
protagonista ero io.

 

Hai avuto modo di portare alla ribalta tantissimi
musicisti giovani di diverse generazioni. Quale è stato il
talento più fulminante che hai mai incontrato?

Sono tre: Massimo Urbani, Stefano Bollani e Gianluca Petrella.
In quanto a Gianluca Petrella io lo ritengo il più
straordinario musicista che il jazz italiano abbia mai
prodotto.

 

Partendo da una sonorità che si ispirava credo a
Miles Davis hai ora un timbro e un carattere inconfondibili e se
così posso dire molto caldi, latini, italiani….come ci sei
arrivato?

Il suono normalmente è come la voce, è il suono di
uno. Non è che ci sono arrivato, è il mio suono
dall’inizio, che nasce dal fatto che amavo certi trombettisti a
partire da quando ero bambino: Bix Beiderbecke
che è stato uno dei miei grandi idoli, Louis Armstrong
poi Miles soprattutto, Chet Baker
moltissimo. Mi piacciono tutti i trombettisti non
squillanti, non sovracuti.

 

Tra gli standard c’è per te la canzone perfetta?

Sì, sì, ne ho una che posso suonare tutti i giorni
che è “My funny Valentine”, che per me è perfetta
perché può essere suonata in mille modi diversi, ha una
struttura che ha molte aperture, è un pezzo che dà una
libertà assoluta. All’inizio era una canzoncina per ragazzine,
poi dopo la versione di Miles Davis, del 1964 tutti ne hanno capito
le potenzialità. Quando suono quasi sempre la inserisco,
perché mi viene diversa ogni volta, l’avrò suonata 10.000
volte senza esagerare.

 

Quale interpretazione preferisci?

Innanzitutto quella di Miles Davis al Lincoln Center e poi una
infinità di versioni di Chet Baker, che l’ha incisa almeno
cinquanta volte; qualunque di quelle versioni è
stupenda.

C’è qualche luogo che ti è rimasto nel
cuore?
Buenos Aires: quando ci sono andato per la
prima volta nel 1966, ho capito che era un posto che mi sentivo
addosso come un abito su misura. L’India: una volta arrivato, ho
pensato “qui devo tornare e rimanerci cinque o sei mesi”, cosa che
poi non ho fatto. Israele: essere in macchina su un’autostrada e
invece di vedere scritto “Atina” o “Casale Monferrato”, vedi
“Nazaret” o “Betlemme”; per noi che siamo cresciuti in un ambiente
cattolico questi sono nomi magici.

Il viaggio che non hai ancora fatto?
Ho girato
molto, ma non sono mai stato nell’Africa nera per mia scelta. Da
bambino ho immaginato questo posto meraviglioso, pieno di animali.
Io adoro gli animali, sono proprio un fissato. Ora quest’Africa non
esiste più, è fatta di gente che si ammazza, che vive in
una situazione orrenda che non mi sento di vedere.

Riguardo questo amore per gli animali, qual è il tuo
preferito?

Il gatto! Ma amo anche tutti gli altri, cavalli, cani,
uccellini… Ho avuto una gatta, si chiamava Tutù [un
pezzo di Rava ha il suo nome, ndr], è stata per me come una
figlia; ha vissuto con me 18 anni, quando se ne è andata
è stata una specie di tragedia.

Hai scritto la prefazione al libro “Il giro del giorno in
ottanta mondi” di Julio Cortázar. Si può dire che la tua
vena creativa pulsi tra musica e scrittura?
A
settembre esce il mio nuovo disco in quintetto “Tribe”, a novembre
sarò in tournée in Sudamerica con le musiche di Michael
Jackson, un altro dei miei idoli. Poi avrò le presentazioni
del mio libro [“Incontri con musicisti straordinari. La storia del
mio jazz”, Feltrinelli, ndr]. Mi sono divertito a scriverlo, dato
che ho 72 anni e ho vissuto la guerra da bambino, ho visto due
colpi militari in Argentina, la guerra in Vietnam. Sono un lettore
forte e mi piace molto scrivere, spesso scrivo articoli e
prefazioni. Dovrei scrivere altri due o tre libri, sto già
pensando al prossimo…

[Foto nel corpo del testo di Stefano
Pescio]

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