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Come investono il loro patrimonio le famiglie facoltose? Per fortuna, l’impact investing è una scelta sempre più comune. Ecco alcuni dati, in anteprima.
Nella comunità finanziaria internazionale esistono ancora realtà titubanti di fronte all’impact investing. Le famiglie facoltose, invece, si stanno dimostrando all’avanguardia. Lo dimostrano i dati del report “Investing for global impact”, che ha interpellato 256 fondazioni e family office.
L’impact investing (“investimenti a impatto”) è una vera e propria rivoluzione, sia rispetto alle logiche della filantropia sia rispetto agli investimenti tradizionali. Dalla prima, infatti, eredita la volontà di raggiungere (e misurare con dati concreti) un impatto sociale e ambientale positivo; dalla seconda, invece, l’intento di ottenere un ritorno finanziario.
Prima di affacciarsi a questo nuovo approccio, dunque, è indispensabile passare un periodo a guardarsi intorno, analizzando le varie opzioni per capire qual è la soluzione migliore. Nell’ultimo decennio le famiglie facoltose sono riuscite a maturare l’esperienza che serviva e passare all’azione. Tra il 2010 e il 2016 hanno avviato il loro primo investimento a impatto il 71 per cento dei multi-family office, il 56 per cento dei single-family office e il 57 per cento delle fondazioni.
In particolare, nel mondo dell’impact investing si distinguono i single-family office, vale a dire quelle società che gestiscono il patrimonio di una sola famiglia facoltosa (differenziandosi quindi dai multi-family office, che ne aggregano più di uno). Il 45 per cento di quelli intervistati parla degli investimenti a impatto come di una componente fondamentale del proprio portafoglio. Un quarto di questi soggetti si focalizza unicamente sugli investimenti a impatto, senza prendere in considerazione la filantropia.
Al contrario, per il 36 per cento delle fondazioni e per il 40 per cento dei multi-family office l’impact investing è parte di una sorta di “portafoglio-satellite”, che include anche la filantropia e opera in parallelo rispetto a quello convenzionale.
Di norma l’attenzione dei media è tutta focalizzata sui millennial (i giovani adulti nati tra il 1980 e il 2000), che si mostrano tendenzialmente molto attenti alla sostenibilità. Ma la ricerca getta una luce positiva anche sui loro predecessori: i baby boomers (nati tra il 1945 e il 1964) e la generazione X (1965-1984). In un caso su tre, infatti, sono proprio loro a dare il “la” all’impact investing all’interno del family office o della fondazione per cui lavorano. Certamente, sottolineano però i ricercatori, questo dato va preso con le pinze, perché è fortemente influenzato dalle caratteristiche del campione.
Molto importante è poi il ruolo dei consulenti esterni dei family office. In circa due casi su dieci sono proprio loro a suggerire gli investimenti a impatto. Un dato che dovrebbe far riflettere sulla necessità di lavorare molto sulla formazione e sulla consapevolezza dei consulenti finanziari, un tema che emerge spesso nei tanti appuntamenti dedicati alla finanza responsabile.
“Investing for global impact” è un report realizzato dal Financial Times, in partnership con GIST (Global Impact Solutions Today) e con il supporto della banca britannica Barclays. Lo studio si concentra su due grandi mondi: impact investing e filantropia. Da un lato, quindi, gli investimenti che vogliono ottenere sia un ritorno finanziario sia un impatto sociale e ambientale positivo; dall’altro lato, le attività benefiche a fondo perduto.
Alla quarta edizione, presentata alla fine di marzo a Parigi, hanno partecipato 246 soggetti provenienti da 45 paesi. La ricerca si focalizza su chi gestisce i capitali delle famiglie facoltose: fondazioni e family office, vale a dire società di servizi che forniscono consulenza a una o più famiglie, gestiscono gli investimenti e seguono l’amministrazione e la contabilità.
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