Editoriale

Giro d’Italia 2023, le foreste che val la pena seguire nella terza e ultima settimana

Il racconto delle foreste da scoprire durante l’ultima settimana del Giro d’Italia. La nostra personale “maglia verde” è stata assegnata a Davide Bais.

Si ringrazia il prof Marco Borghetti (Sisef, Università degli studi della Basilicata) per il racconto delle foreste subalpine e il dott. Giorgio Matteucci, direttore del Cnr Bioeconomia, per le notizie relative alle foreste del Cansiglio e del Cadore.

Il Giro d’Italia 2023 sarà ricordato negli annali del ciclismo per la sua imprevedibilità: il freddo, la pioggia, i ritiri causa Covid, la Cima Coppi del Gran San Bernardo annullata causa rischio valanghe e poi lo stesso tappone alpino, il primo importante test per gli uomini di classifica, tagliato a meno della metà dei chilometri previsti per le previsioni meteo (poi disattese) che hanno messo in allarme i corridori.

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L’itinerario della terza settimana del Giro d’Italia 2023 © Cicloweb.it

Nella seconda settimana, però, non sono mancate le emozioni, i grandi panorami boscati e soprattutto gli scatti e i gesti atletici tra gli alberi. E c’è una grande novità: la nostra personale “maglia verde bosco” (per il corridore che ha donato le più belle emozioni immerso in foresta) cambia proprietario. Perché lo sloveno Primoz Roglic, detentore della maglia grazie al suo scatto tra i querceti dei Cappuccini di Fossombrone, in questa settimana è stato “coperto” (non solo dalle fronde, ma in senso tattico), non regalando grandi perle ciclistico-forestali. La scelta sulla nuova “maglia verde bosco” è stata però combattuta fino alla fine: l’indecisione era tra il francese Thibaut Pinot, protagonista di innumerevoli scatti tra la vegetazione rada mista a pascoli lungo la salita verso l’arrivo di Crans Montana, in Svizzera, e un giovane atleta italiano sul quale è infine ricaduta la nostra scelta finale. Si tratta del giovane trentino Davide Bais, già protagonista della prima settimana di Giro con la vittoria sul Gran Sasso. Davide ha preso parte ad una fuga epica sotto una pioggia battente nella tappa 14 e di una bella azione lungo la salita del Sempione, dove è scattato in prossimità del passo, in mezzo ai larici, per andarsi a riconquistare la maglia di miglior scalatore. Non sapeva che, oltre alla maglia azzurra, ad attenderlo all’arrivo c’era anche quella “verde bosco”.

Ma iniziamo il racconto delle foreste da scoprire durante la terza e ultima settimana di corsa rosa.

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Uno scorcio del Giardino Alpino Viote del Monte Bondone © MUSE

Arrivo in salita, con una “lezione” dalle foreste trentine

La terza settimana partirà mettendo bene in chiaro le cose: quelle sulle Alpi orientali saranno le tappe decisive per conquistare non solo l’ambita maglia rosa e quella azzurra, di miglior scalatore, ma anche la nostra, ambitissima, “maglia verde bosco”, che tra le foreste trentine, venete o friulane verrà assegnata definitivamente al ciclista che regalerà più emozioni immerso tra gli alberi. Chissà se Davide Bais riuscirà a tenersela stretta, se tornerà sulle spalle di Roglic o se invece qualche outsider la strapperà ai favoriti.

Si partirà alla grande martedì 23 maggio, con un “tappone” davvero duro: oltre 200 km, 5.200 metri di dislivello, 5 Gran premi della montagna e un temutissimo arrivo in salita, quello del monte Bondone, “l’Alpe di Trento” (dove Davide Bais e il fratello Mattia, anch’esso ciclista del Giro, giocheranno in casa). Quando, ormai stravolti, i big in gara raggiungeranno gli ultimi chilometri di corsa per giocarsi il tutto per tutto, molto probabilmente non si accorgeranno, a pochi metri da loro, di una vera e propria perla botanica delle Alpi: il “Giardino botanico alpino Viote del monte Bondone”, curato dal Muse – Museo delle scienze di Trento. Si tratta di uno dei più grandi e antichi giardini botanici delle Alpi, che dal 1938 coltiva, conserva e studia, tra aiuole rocciose, prati a sfalcio, laghi e torbiere, oltre 1.000 specie di piante montane rare provenienti da tutto il mondo. I ciclisti del Giro 2023 provengono da oltre 30 nazioni: qui potranno sicuramente trovare almeno una pianta che saprà ricordare loro le montagne di casa, o magari qualche essenza con proprietà lenitive con cui massaggiare i loro muscoli dolenti.
Ogni anno i ricercatori del Muse che curano questo Giardino partecipano all’International Plant exchange network, il programma internazionale di scambio non commerciale di semi, attività fondamentale per la conservazione della biodiversità a livello globale. Un bell’esempio di collaborazione internazionale, proprio come quella che si osserva sulle strade del ciclismo, che mescolano tradizioni e paesaggi locali alle storie di corridori provenienti da ogni parte del mondo.

Questa tappa attraverserà anche una delle “Foreste demaniali” della provincia autonoma di Trento, la foresta del monte Bondone. Le foreste demaniali trentine hanno una storia travagliata e interessante: in origine erano proprietà feudali montane, poi furono amministrate come patrimonio dello stato austriaco, prima dal ministero delle Finanze e successivamente, in qualità di “erario forestale”, dal ministero dell’Agricoltura. Dopo 1918 furono inglobate dallo stato italiano e infine trasferite prima alla regione Trentino-Alto Adige e poi alla provincia autonoma di Trento. Oggi sono considerate un “patrimonio indisponibile a favore di tutta la comunità trentina”, meritevoli di particolare tutela non solo per l’elevato valore naturalistico ma anche per quello socio-culturale ed economico.

La foresta demaniale del monte Bondone è derivata in buona parte da rimboschimenti artificiali avvenuti dopo la catastrofe umana e ambientale della Grande guerra. Nonostante l’origine antropica, però, qui la gestione forestale è da alcuni decenni di tipo naturalistico. La “monocoltura” dell’abete rosso, tipica dei rimboschimenti di inizio Novecento, è stata superata e questi boschi, grazie a interventi selvicolturali mirati, stanno lentamente cambiando forma e composizione, con presenza di larice, abete bianco e pino cembro. Boschi nati a partire da monocolture ma ormai indirizzati a diventare sempre più stabili, resilienti e simili alle foreste naturali. Quando vogliamo, sappiamo apprendere dai nostri errori e cambiare rotta, non attraverso l’abbandono ma con una gestione attiva, anche produttiva, ma attenta alle dinamiche degli ecosistemi. Chissà se qualche favorito oggi andrà in crisi e imparerà dai propri errori cambiando strategia per le prossime tappe, proprio come i forestali del Trentino hanno fatto introducendo la selvicoltura naturalistica!

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La scultura “Radice Comune” di Henrique Oliveira © Arte Sella, foto Giacomo Bianchi

 Tra foreste d’arte e boschi di pianura

Dopo la faticata del monte Bondone il Giro concederà ai corridori una tappa relativamente tranquilla, adatta ai velocisti: la Pergine Valsugana-Caorle, 195 chilometri in discesa e pianura che permetteranno agli scalatori di tirare fiato e di sciogliere i loro muscoli.

A breve distanza dall’inizio di questa tappa si trova uno dei luoghi più affascinanti di tutti i boschi alpini. Un posto dove è possibile assistere con i nostri occhi agli effetti dello scorrere del tempo sui patriarchi della natura. Un luogo incantato dove gli alberi dialogano con noi, raccontando storie ed emozioni. No, non stiamo parlando del “wood wide web”, la rete simbiotica tra radici e funghi portata alla ribalta dalle ricerche della canadese Susanne Simard, presto raccontate anche in un film di Hollywood. Ricerche che, tra l’altro, ultimamente hanno talmente preso la mano a scienziati, divulgatori e appassionati di natura al punto da suggerire alla rivista “Nature – Ecology and evolution” il bisogno di ricordare che si tratta di risultati preliminari, riscontrati in un pugno di siti sperimentali, che al momento non è assolutamente possibile generalizzare a tutte le foreste.

Parliamo invece di Arte Sella, una mostra internazionale di arte contemporanea, nata nel 1986, che si svolge ogni giorno all’aperto nei prati e nei boschi della Val di Sella, nel comune di Borgo Valsugana (Tn). Qui, lungo un sentiero di circa 3 chilometri di lunghezza alle pendici del monte Armentera, sono collocate 25 opere di “land art”, la forma d’arte che utilizza elementi naturali e del paesaggio. Si tratta di sculture tridimensionali ottenute con sassi, foglie, rami o tronchi, che sono collocate all’aperto: il visitatore può osservare le opere e allo stesso tempo immergersi con tutti i sensi nel bosco e nei pascoli della Valsugana. In ogni opera, l’artista deve esprimere il proprio rapporto con la natura basato sul rispetto, traendo da essa ispirazione e stimolo. Tutte le sculture, essendo realizzate in parte con materiali viventi, si inseriscono nel ciclo vitale del bosco e sono quindi destinate a subire processi più o meno lenti di trasformazione e degrado, fino alla loro definitiva scomparsa per decomposizione del legno e degli altri materiali, che verranno incorporati nel suolo e nell’aria.

Il monumento centrale del parco è la cattedrale vegetale di Giuliano Mauri, costruita nel 2001 con più di tremila rami intrecciati nelle forme di una cattedrale a tre navate, con ottanta colonne alte 12 metri e 1.220 m² di superficie. All’interno di ogni colonna è collocata una pianta di carpino, che nell’intenzione dell’artista, una volta cresciuta, dovrebbe prendere il posto della struttura attuale, destinata nel tempo a degradarsi e scomparire.

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La scultura “Cattedrale vegetale” di Giuliano Mauri in veste invernale © Arte Sella, foto Giacomo Bianchi

La tappa proseguirà velocissima dal Trentino alla pianura veneta e lambirà, tra Bassano del Grappa e Rosà, un piccolo paese di nome Sandrigo. Si tratta di un luogo che a pochissimi evoca storie forestali, ma piuttosto vicende agricole, come ricorda lo stemma comunale caratterizzato da una spiga di grano e un grappolo d’uva. E invece Sandrigo è un luogo importante per boschi importanti, quelli che un tempo caratterizzavano l’intera Pianura Padana: i boschi planiziali, dominati dalla quercia “farnia”, che da secoli purtroppo sono scomparsi quasi ovunque per far spazio all’agricoltura, alle industrie e all’urbanizzazione.

A Sandrigo, nel 2017, è stato firmato un documento promosso da Veneto Agricoltura (chiamato appunto “Carta di Sandrigo”) che ha fondato la “Comunità dei boschi di pianura”, formata da amministratori, tecnici, ricercatori, associazioni, imprese e cittadini, che si sono impegnati in un obiettivo comune decisamente ambizioso: decuplicare la superficie forestale di pianura entro il 2050. L’obiettivo è arrivare a rendere il paesaggio della pianura veneta simile a quello che si poteva osservare ai tempi della Repubblica di Venezia, dove i querceti di pianura occupavano circa 7.000 ettari suddivisi in vari appezzamenti e fornivano una materia prima fondamentale: il legno per lo scafo delle navi veneziane, che hanno solcato in lungo e in largo il Mediterraneo portando prosperità a queste terre.

Tornare a creare boschi planiziali in queste aree molto urbanizzate sarebbe oggi importante per tantissimi altri servizi ecosistemici e proprio per questo ci auguriamo che la “Comunità dei boschi di pianura”, che dal 2017 si riunisce ogni anno per fare il punto sul proprio obiettivo, riesca a mostrare in mondovisione, durante il Giro del 2050, il proprio grande risultato raggiunto: un “ritorno al futuro” utile a tutti noi.

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Gli antichi boschi “da reme” del Cansiglio @ Luigi Torreggiani

In Cansiglio e Cadore, tra gestione tradizionale e biodiversità

La storia della Repubblica di Venezia accompagnerà il Giro d’Italia anche nella tappa 18, da Oderzo a Val di Zoldo, forse quella più ricca di storia forestale della corsa rosa di quest’anno. La carovana del Giro attraverserà infatti realtà boscate molto importanti, dalla Foresta del Cansiglio a quelle del Cadore. Tutte le foreste italiane ed europee hanno storie lunghe, spesso millenarie, di relazione tra esseri umani e alberi. Ma quelle di questa tappa sono più di altre legate ad una tradizione che viene da lontano, partendo intorno all’anno 1000 e passando attraverso la storia, il prestigio e il potere della Repubblica marinara di Venezia. Una forza e un potere che non sarebbero stati possibili senza un uso, spesso oculato e sostenibile, delle proprie risorse forestali.

La prima grande salita porterà i corridori al Pian del Cansiglio, un luogo meraviglioso caratterizzato da un’estesa foresta diventata strategica, a partire dal 1548, per la Serenissima. In quell’anno infatti il “Consiglio dei Dieci” della Repubblica di Venezia sancì che questa foresta diventasse il “Gran bosco da Reme di San Marco”, riservandone la coltivazione per la produzione di remi per le galee e di legname per l’arsenale. In quegli anni Venezia era impegnata nel contrastare le flotte navali turche: un’emergenza militare che rese necessaria una rapida evoluzione nella costruzione di galee più grandi, capaci di trasportare più uomini e munizioni. Per navi più grandi servivano ovviamente anche remi più lunghi e i faggi del Cansiglio erano perfetti per questo scopo, grazie ai diametri elevati e soprattutto a fusti lunghi, dritti e senza nodi. Da allora la foresta è stata pianificata e gestita con finalità produttive ma, come si noterà durante il passaggio del Giro, ciò non ha affatto distrutto questi boschi! Una buona gestione forestale è anche una questione di matematica, frutto di stime e calcoli, pensata per prelevare sempre meno di quanto il bosco ricresce naturalmente: per questo il Cansiglio, dopo secoli di gestione attiva e produttiva, è ancora oggi una foresta rigogliosa.

Se ci pensate, funziona così anche nel ciclismo: le energie vanno spese con cura e reintegrate meticolosamente, evitando di andare in deficit, pena una “cotta” che può costare davvero cara anche ai corridori più esperti. Tuttavia, in una buona gestione delle foreste non conta solo quanto legno cresce, ma anche l’equilibrio complessivo dell’ecosistema e di tutte le componenti che ne fanno parte, da quelle più grandi (gli alberi, i grandi animali) a quelle più piccole, come i funghi, gli uccelli o gli insetti. Secoli di gestione forestale tradizionale basati sulla sola massimizzazione della produzione di legno hanno creato, qui in Cansiglio come in tante altre aree forestali, popolamenti omogenei, spesso carenti di legno morto e di alberi di grandi dimensioni, elementi tipici delle foreste naturali. Questa semplificazione ha avuto come conseguenza una riduzione di molti habitat e microhabitat, quindi anche di tante specie ad essi connesse.

Per questo in Cansiglio, ormai da anni, si lavora ad un’evoluzione della gestione forestale con l’obiettivo di bilanciare la produzione di legno, ancora molto importante, alla tutela della biodiversità. Due ottimi esempi sono i progetti Life ManFor e SPAN, finanziati dall’Unione Europea proprio con l’obiettivo di trovare soluzioni gestionali capaci di incrementare la biodiversità, in particolare quella legata agli organismi saproxilici (insetti, uccelli, funghi, muschi e licheni) che, utilizzando nel proprio ciclo vitale il legno in varie fasi di decomposizione, sono fondamentali per il ciclo ecologico delle foreste. Questi due progetti hanno introdotto in Cansiglio una curiosa e particolare forma di gestione naturalistica: la creazione di una rete di “Isole di biodiversità”. Si tratta di un insieme di “aree di senescenza” dove il bosco è stato reso il più simile possibile a una foresta vergine, con alberi morti in piedi e a terra, radure e fusti in cui sono presenti cavità e ferite. Queste piccole “isole”, sparse per la foresta attivamente gestita, agiscono come “nodi” di una “rete” che favorisce la diffusione della biodiversità in tutto il territorio. È davvero fondamentale la biodiversità, anche nel ciclismo! In tanti lo associano ad uno sport individuale, ma invece è la squadra la vera forza, fatta di corridori “biodiversi”, ciascuno caratterizzato da peculiarità che, nell’insieme, possono portare il capitano alla vittoria finale. La maglia rosa viene indossata da un solo uomo, è vero, ma è la squadra, nel suo insieme, a vincere la corsa.

Dopo il passaggio in Cansiglio la tappa proseguirà risalendo il Cadore, solcato dal Fiume Piave. Foreste e storia della Serenissima continuano a caratterizzare questa tappa fino all’arrivo, a Val di Zoldo, luogo ancora oggi noto per i propri larici e la loro lavorazione. Il larice (unica conifera italiana a perdere gli aghi in inverno) è un albero affascinante per le sue forme, la sua chioma leggera, ma anche per il suo legno: facile da lavorare, durevole, resistente alle intemperie, profumato e di aspetto molto gradevole. Nelle vallate dolomitiche i rivestimenti esterni dei fienili e di molte case sono da sempre realizzati con questo legno, così come per la copertura dei tetti si usavano, e talvolta si usano ancora, le cosiddette “scandole”: piccole assicelle di legno di larice caratteristiche del paesaggio alpino.

Ebbene, proprio per queste sue caratteristiche peculiari il legno di larice era molto ricercato da Venezia per le tante lavorazioni da svolgersi sott’acqua, fondamentali per la “città galleggiante” che, in realtà, poggia ancora oggi su centinaia di migliaia di pali di legno. Il Piave era per Venezia una vera e propria infrastruttura a servizio della gestione del bosco, una “autostrada del legno” che collegava, tramite la fluitazione, queste montagne alla pianura. Protagonisti di questi trasporti erano le zattere e i maestri “Zattieri”, di cui esistono memorie storiche e a cui sono stati dedicati libri, spettacoli teatrali e anche un museo.
I corridori però, al contrario degli Zattieri, il Piave lo risaliranno, fino ai boschi di larice della Val di Zoldo, e giunti alla fine della diciottesima tappa della corsa dovranno davvero ispirarsi a questi alberi affascinanti e maestosi: essere al tempo stesso leggeri di chioma (di testa!), resistenti nel legno (nelle gambe!) e dotarsi di una spessa corteccia per resistere al dolore, alla fatica, e lottare fino a provare ad agguantare l’ambita maglia rosa.

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Gli effetti dell’infestazione di bostrico sulle foreste di abete rosso @ Luigi Torreggiani

Nel cuore delle Dolomiti, tra gli effetti di Vaia e il fascino della foresta subalpina

Nel cuore delle Dolomiti, attraverso i passi di Campolongo, Valparola e Giau, venerdì 26 maggio la tappa porterà la carovana dei “girini” da Longarone alle leggendarie Tre Cime di Lavaredo, nuova “Cima Coppi” (il punto più alto toccato dalla corsa) dopo l’annullamento del Gran San Bernardo.

Ma prima di arrampicarsi sui tornanti dolomitici, la tappa correrà nella valle dell’Agordino, dove saranno ancora ben visibili i segni lasciati dalla tempesta Vaia, che nel 2018 rase al suolo oltre quarantamila ettari di boschi alpini, in particolare quelli di abete rosso. Tra il 28 e il 30 ottobre si sommarono le condizioni necessarie a creare la “tempesta del secolo”: precipitazioni eccezionali e raffiche di vento a 140-150 km/h (con punte di oltre 190 km/h), frutto di una profonda depressione transitata sulle Alpi e caricatasi di umidità e energia su un mar mediterraneo di tre gradi più caldo del normale; umidità poi scaricata interamente su questo territorio, con ad esempio i 716 millimetri di pioggia in poco più di 48 ore a Longarone (rispetto a una media di 300 mm sul totale di tutto il mese di ottobre). Il lago di Alleghe, ben visibile dalle immagini televisive della tappa, al passaggio di Vaia si trasformò in un involontario “deposito” di legno morto, con 500 mila metri cubi di materiale accumulato che fecero anche tracimare il bacino nei giorni immediatamente successivi alla tempesta.

A cinque anni di distanza le cicatrici sono ancora evidenti, sia sul territorio che nei boschi: massi e case da mettere in sicurezza, tronchi ancora a terra perché il recupero sarebbe troppo costoso o pericoloso, ferite aperte sulle montagne. E poi c’è il bostrico, un coleottero che attacca gli abeti rossi portandoli alla morte. L’insetto è naturale in questi ecosistemi, tuttavia si sta diffondendo fuori controllo, favorito dall’abbondante presenza di legno fresco abbattuto dal vento ma anche di abeti rossi sempre più in stress a causa di siccità e temperature ben oltre la media. Le telecamere del Giro indugeranno sui segni dello “schianto”, anche se in molti luoghi i tronchi abbattuti sono stati ormai portati via, a volte troppo frettolosamente, dato il loro ruolo ecologico utile a proteggere il suolo, mitigare il dissesto e accelerare la crescita delle nuove piantine nate dai semi dispersi dagli alberi sopravvissuti al disastro.

I boschi colpiti da questo evento “sentinella” della crisi climatica ritorneranno, questo è certo; magari diversi da prima, con una maggiore biodiversità grazie alle latifoglie pioniere che spezzeranno la dominanza artificiosa dell’abete rosso, ormai troppo fragile agli eventi climatici estremi. Magari con lentezza, tanto da imporre la scelta del rimboschimento artificiale dove l’esigenza di proteggerci dal dissesto renderà impossibile lasciar passare troppi anni prima di rivedere boschi maturi e dal buon potere “regolatore”.

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Foreste subalpine all’ombra delle Dolomiti @ Giorgio Vacchiano

La salita dei passi dolomitici sarà però anche una bella occasione per osservare da vicino la tipica foresta d’alta quota, quella che dai versanti delle medie altitudini arriva a sfiorare i ghiaioni che fanno da corona alle guglie dolomitiche. È la foresta subalpina. Suggestiva, luminosa, con le chiome degli alberi distanziate fra di loro a contornare radure ricoperte di mirtilli, eriche e rododendri. L’abete rosso, ma ancor di più, man mano che si sale, il pino cembro e il larice sono i “signori” di questa foresta. Le generazioni degli alberi si succedono con gradualità. Le giovani piantine, nate dal seme prodotto dagli alberi maturi (la rinnovazione del bosco), si sviluppano lentamente, ma con tenacità. Su queste piantine si può confidare affinché il bosco si rinnovi e persista nel corso del tempo, anche laddove il vento diventa spesso tempesta e le valanghe spazzano con forza il versante.

È un ottimo esempio di foresta “resiliente”, quella subalpina. Ma, oltre ad essere un grande presidio per la stabilità delle ‘terre alte’, è anche una foresta da cui si può ricavare dell’ottimo legno. Quello del larice, come abbiamo già scoperto, è di grande valore e qualità. E che dire del legno di pino cembro? È quello prediletto dagli scultori e dagli intagliatori: un legno aromatico, che sprigiona sostanze che tengono lontane le larve degli insetti. È per questo motivo che venivano fatti con il legno del pino cembro quei begli armadi dipinti in cui veniva custodito il corredo che, un tempo, le spose portavano in dote.

Sulle tre cime di Lavaredo spesso si è deciso il Giro. Non poche volte gli stretti e ripidi tornanti che si snodano verso il rifugio Auronzo, attraverso i lembi più alti della foresta subalpina, fino ai nudi ghiaioni di dolomia, hanno assegnato la maglia rosa. Sarà così anche quest’anno?

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I Laghi di Fusine e la foresta di Tarvisio @ Erik Paakspuu (CC BY 2.0)

A picco sulla più grande Foresta demaniale d’Italia

Arrivati a Tarvisio per la cronoscalata del Monte Lussari, nell’estremo nord-est d’Italia, ai confini con Slovenia e Austria, i corridori saranno ormai giunti ai chilometri finali Giro, una corsa quest’anno davvero pazza, caratterizzata da pioggia, ritiri, cadute, tappe tagliate causa maltempo e rischio valanghe… ma il Giro è così, folle, imprevedibile, e in fondo è anche questo il suo fascino.

Se la classifica per indossare la maglia rosa sarà “corta”, ovvero con tanti big concentrati in pochi secondi, la cronoscalata del Monte Lussari potrà confermare ma anche ribaltare i risultati finali del Giro, donando grandi emozioni in questa tappa. Si tratta di 1.050 metri di dislivello concentrati in soli 18,6 chilometri, un vero e proprio “muro” che porterà i corridori, uno alla volta come in ogni gara a cronometro, sul “balcone delle Alpi Giulie”.

Il Monte Santo di Lussari, infatti, dominato dall’omonimo Santuario, è un punto panoramico mozzafiato verso la maestosità delle scoscesi pareti di roccia del Jof di Montasio, del Jof Fuart e del Mangart, ma non solo. Da lassù le telecamere del Giro, puntando verso il basso, inquadreranno i meravigliosi Laghi di Fusine ma anche la Foresta di Tarvisio, oggi gestita dal locale Reparto Carabinieri Biodiversità e, per una parte di proprietà regionale, dal Corpo Forestale del Friuli Venezia-Giulia.
L’area statale, la più vasta, dopo una lunga vicenda storica che ha interessato Vescovi e Imperatori, è oggi di proprietà del Fondo Edifici di Culto del Ministero dell’Interno e rappresenta la più grande Foresta demaniale d’Italia, che si estende per circa 24.000 ettari (una superficie più ampia del Lago Maggiore, per intenderci) e un perimetro di ben 168 chilometri: in pratica, seguendone i confini, si potrebbe idealmente percorrere un’intera tappa del Giro!

Il bosco è caratterizzato da faggete alle quote inferiori e, più in alto, da boschi di abete bianco e rosso. Tanti associano unicamente la foresta trentina di Paneveggio al legno storicamente utilizzato per la produzione di strumenti ad arco come violini, viole, violoncelli, chitarre o pianoforti, ma in realtà anche qui a Tarvisio si trovano i cosiddetti “abeti rossi di risonanza”.
L’eccezionalità unica al mondo del legno di questi alberi è data da speciali caratteristiche anatomiche, fisiche e meccaniche. Un legno “perfetto”, senza difetti, con anelli di accrescimento sottili, che trasmette gli ultrasuoni in modo molto più veloce rispetto al normale e raggiunge perciò caratteristiche davvero eccezionali, apprezzate dai liutai di tutto il mondo.

Ma come si crea, nell’albero, questo legno speciale? Innanzitutto in questi boschi la stagione di crescita dura pochi mesi, gli alberi perciò hanno a disposizione poco tempo per formare l’annuale anello di accrescimento, che sarà quindi sottile e caratterizzato da poco “legno tardivo”, meno pregiato e regolare. Inoltre, grande importanza riveste il luogo dove crescono gli abeti. I migliori per la produzione di legno di risonanza sono quelli protetti dal vento e situati su pendii dolci, o in zone pianeggianti. In queste condizioni gli alberi non sviluppano “legno di compressione” o “tasche di resina”, tutti elementi molto utili alla vita degli alberi, ma non graditi ai maestri liutai. I ciclisti del Giro in questa cronoscalata saranno abbarbicati su un versante ripidissimo, esposti al vento, e dovranno fare di tutto per risalirlo il più velocemente possibile: non potranno certo farsi ispirare dal lento e “protetto” legno di risonanza… o forse sì, magari… attraverso il ritmo e la potenza di un’orchestra d’archi sparata in cuffia, a tutto volume!

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Pini domestici a Roma @ Luigi Torreggiani

Tra i pini (a rischio) di Roma

Dopo tre settimane di estenuante competizione, con un percorso durissimo distribuito su quasi 3.500 chilometri e con oltre 51.000 metri di dislivello, i “girini” arriveranno a Roma il 28 maggio, dove, nella ventunesima e ultima tappa, taglieranno il traguardo dei Fori Imperiali: ultima grande occasione per i velocisti sopravvissuti alle grandi montagne e arrivati fin qui. Oltre ai Fori Imperiali, la “passerella finale” sfiorerà molti dei luoghi simbolo della capitale tra cui il Colosseo, Villa Borghese, Castel Sant’Angelo, il Circo Massimo, le Terme di Caracalla e la Basilica di San Pietro.

In quasi tutti questi luoghi sarà impossibile non notare un altro simbolo di Roma, dalla presenza rassicurante e rinfrescante: il pino domestico. Un albero fotografato dai turisti di tutto il mondo, immortalato in tanti dipinti antichi e moderni, nei film che hanno fatto la storia del cinema: un monumento tra i monumenti.

La sua chioma a ombrello è “progettata” per resistere ai venti più forti; le sue radici sono forti e di grandi dimensioni (anche troppo, secondo gli utenti della viabilità romana!); il suo essere sempreverde produce frescura e trattiene polveri sottili anche in inverno, quando gli altri alberi vanno in letargo, perdono le foglie e l’inquinamento urbano è al massimo.

I pini domestici di Roma rappresentano migliaia di “ombrelli naturali” che riparano anche dalla pioggia violenta e dalla grandine, diminuendone l’impatto sul suolo e schermando la forza d’urto del vento contro gli edifici. Si tratta di quasi cinquantamila alberi, se si considerano solo quelli di proprietà del comune: un patrimonio di enorme valore che però è minacciato da un nuovo, temibile pericolo: la Toumeyella parvicornis, o “cocciniglia tartaruga”, un insetto originario del Nordamerica che si nutre della linfa dell’albero succhiandone gli aghi. I rami e le foglie degli esemplari attaccati si ricoprono di una fitta coltre scura, che fa calare la fotosintesi e quindi comporta il deperimento e la morte degli alberi. Nel 2015 la Toumeyella è stata rinvenuta per la prima volta in Campania, primo rilevamento avvenuto in Europa. Dopo aver arrecato ingenti danni al patrimonio arboreo partenopeo e regionale, nel 2018 è stata avvistata anche a Roma, dove ha iniziato a diffondersi a grande velocità fino al centro storico della capitale.

Negli ultimi due anni, oltre cinquantamila pini di proprietà pubblica e privata sono stati trattati dalle squadre del Comune con iniezioni di abamectina, l’unico insetticida in grado al momento di rallentare (ma non fermare) l’azione dell’insetto. Questo trattamento deve essere ripetuto ogni anno e ha un’efficacia tra l’80 e il 90 per cento. Sembra un ottimo dato, ma in realtà è poco rassicurante. Significa infatti che anche nelle migliori ipotesi restano vive il 10 per cento delle cocciniglie. E poiché ogni femmina adulta può produrre fino a 200-300 uova e può arrivare a mettere alla luce tre generazioni in un periodo estivo, bastano poche decine di insetti adulti per generare decine di migliaia di nuovi parassiti.

Oggi tra le Riserve, i parchi, le ville e le alberature urbane di Roma, la grave infestazione interessa circa un milione di pini. Villa Borghese, Villa Pamphili, Villa Ada, Villa Glori, il Gianicolo, Villa Torlonia. E ancora l’Appia, Ostia Antica, le Riserve, le pinete litoranee come quelle di Fregene, Maccarese e Castelfusano. I pini della Caffarella, dell’Axa, di Casal Palocco, Mostacciano, l’Eur, la Garbatella, Corso Trieste e Saxa Rubra sono già stati infestati o a rischio imminente.

Quale il destino di questi alberi e di questi luoghi resi iconici anche grazie alla loro presenza? Al momento sembra che la battaglia non si possa vincere, ma solo rallentare. Non sarebbe la prima volta, nella storia forestale d’Italia, che una specie arborea viene massicciamente attaccata e quasi totalmente cancellata da un patogeno esotico, quindi privo di antagonisti naturali. Forse l’evoluzione ci riserverà qualche sorpresa ed emergeranno alberi più resistenti alla cocciniglia, da cui poter ripartire utilizzandoli su larga scala. O forse i paesaggi urbani di Roma e Napoli cambieranno nuovamente pelle, come hanno già fatto in passato quando platani, magnolie e palme furono soppiantati dalla “nuova moda” dei pini, che forse dovranno lasciare il posto all’impianto di alberi più adatti al clima sempre più caldo e secco. Nuovi alberi che, nonostante un clima peggiore, possano ancora fornire quei servizi di regolazione e adattamento di cui soprattutto i cittadini più vulnerabili necessitano e che possono essere generati solo a partire da un verde urbano in salute e distribuito in modo equo nelle nostre città.

Finisce il Giro, ma le foreste rimangono!

Questo primo “Giro delle foreste d’Italia” è arrivato alla fine. Per noi che l’abbiamo scritto è stata davvero una bella avventura, una sfida, un piacere. Speriamo sia stato lo stesso per voi, che l’avete vissuto leggendo.
Abbiamo cercato di esplorare le foreste toccate dal Giro d’Italia a 360 gradi, perché crediamo che questo esercizio di consapevolezza sul valore del nostro patrimonio boschivo, ma anche delle sue filiere, della sua storia, delle azioni di protezione, cura e valorizzazione necessarie alla sua corretta gestione, sia fondamentale.

Abbiamo un Paese coperto per il 37 per cento da boschi ma troppo spesso lo ignoriamo, o peggio, lo diamo per scontato. Non è così: le nostre foreste sono cambiate, stanno cambiando, rappresentano grandi opportunità e sono lo specchio di grandi rischi, crisi climatica in primis. Tutti noi siamo parte di questa relazione, di questo viaggio. La prima “Strategia forestale nazionale”, da poco approvata, ci indica la strada per il futuro: foreste sane e resilienti, multifunzionali, capaci di generare servizi ecosistemici in modo sostenibile, attraverso un equilibrio tra conservazione e produzione, tra cura, manutenzione e salvaguardia.

Foreste gestite responsabilmente, con obiettivi diversificati. Foreste “in forma”, come ciclisti alla vigilia delle sfide più importanti. Foreste pianificate, proprio come si programma per tempo, e con precisione, l’allenamento di un ciclista in vista di una grande e difficile corsa a tappe. Foreste da vivere, sulle strade di montagna e di città, quelle percorse ogni anno dal nostro amato Giro d’Italia: le nostre strade.

Un grazie particolare a Compagnia delle Foreste e Sisef, la Società italiana di selvicoltura ed ecologia forestale, per averci sostenuto in questa avventura e alla redazione di LifeGate per aver creduto in questo progetto.

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