Giro d’Italia, le foreste che val la pena seguire nella prima settimana

La corsa rosa è partita dalla costa dei Trabocchi, ha poi attraversato i castagneti del Vulture e si appresta a risalire la penisola attraverso l’Appennino campano, la costiera amalfitana, l’Abruzzo e l’Umbria. Paesaggi straordinari che ci permettono di conoscere di più e meglio le nostre foreste e la loro gestione sostenibile.

Si ringrazia il professor Marco Borghetti (Sisef, Università degli Studi della Basilicata) per il racconto relativo ai castagneti del Vulture.

Lo avevamo preannunciato nell’articolo introduttivo: le prime due tappe dell’edizione numero 106 del Giro d’Italia, la grande corsa di tre settimane lungo la quale abbiamo scelto di raccontarvi le foreste italiane tappa dopo tappa, non sarebbero state caratterizzate da grandi paesaggi boscati. Tuttavia, le foreste sono davvero ovunque attorno a noi, se non come ecosistemi veri e propri almeno come prodotti e servizi da esse derivati, essenziali per la nostra vita. Ecco allora che le foreste si sono viste eccome, fin dalla cronometro iniziale lungo la spettacolare “Via verde della costa dei Trabocchi”, la pista ciclopedonale solcata alla media folle di oltre 55 chilometri orari dal belga Remco Evenepoel, prima maglia rosa 2023 e grande favorito per la vittoria finale.

Si sono viste nel legno, con cui da sempre sono costruite le famose “macchine da pesca” diventate un’icona paesaggistica e culturale della costa abruzzese, molisana e garganica: i “trabocchi” appunto, mostrati da tante e diverse inquadrature durante la telecronaca inaugurale del Giro. Queste straordinarie costruzioni, che da secoli punteggiano la costa adriatica centro-meridionale, sono da sempre realizzate con pali di pino d’aleppo, una specie molto presente lungo la costa del Gargano, il cui legno è resistente all’azione della salsedine e particolarmente elastico, in grado quindi di deformarsi senza rompersi durante le mareggiate. Secondo alcuni storici il nome “trabocco” deriverebbe proprio dal latino “trabs”, che significa “trave, legno”. Oggi, per la loro manutenzione, oltre al legno di pino si utilizza anche quello di robinia e castagno, una specie arborea, quest’ultima, importantissima per il nostro Paese che si è mostrata particolarmente rigogliosa nella terza tappa, la Vasto-Melfi, sulle pendici del Monte Vulture.

trabucco, gargano
Gargano, Foggia, Italia: Trabucco tra Vieste e Peschici

Attraverso i castagneti del Vulture

Città dagli antichi fasti, Melfi è dominata dal castello di Federico II e, più in alto, dal monte Vulture: antico vulcano spento, con un’ampia costiera rivestita di boschi e i bei laghi di Monticchio a colmare la caldera. Troviamo querceti e faggete sulle pendici del vulcano, ma è il castagneto ad occupare un posto particolare nella tradizione di questa zona. Sono un caso a sé i castagneti del Vulture, una via di mezzo fra i boschi cedui (quelli che si gestiscono a turni abbastanza brevi per produrre legno sfruttando la capacità di ricaccio delle latifoglie) e i tradizionali castagneti da frutto, destinati alla produzione dei marroni. Li chiamano “cedui da frutto” i castagneti di questa zona, perché la coltivazione era organizzata in un modo particolare. Quando le piante di castagno arrivavano all’età di quaranta-cinquanta anni, venivano tagliate a raso. Dalla ceppaia rinascevano nuovi fusti, i “polloni”. Di questi se ne lasciavano otto-dieci, scelti fra quelli meglio conformati. Con una successiva selezione, dopo tre-quattro anni, sulla ceppaia rimanevano soltanto due-tre fusti e su questi, a inizio della primavera, veniva realizzato l’innesto della varietà da frutto. Tradizionalmente si innestava “a zufolo”, all’altezza di 2,5 metri. Entro il quinto anno di questi polloni innestati se ne selezionava uno solo: quello destinato ad arrivare a fine ciclo e a produrre, anno dopo anno, i preziosi marroni. In questo modo, alla fine del turno, quando si tagliava di nuovo il castagneto, si otteneva anche un bel “toppo” da legno, della lunghezza di 2,5 metri, molto richiesto dagli artigiani che producevano botti e carri. Frutto e legna assieme dai castagneti del Vulture, ma non solo. Nei primi otto-dieci anni del ciclo, al castagneto veniva consociata anche la coltura agraria, e poi si poteva anche introdurre il pascolo. Frutti, legno, coltura agraria e pascolo: cosa pretendere di più? Questi boschi, solcati dalla carovana del Giro nella terza tappa del 2023, per secoli hanno contribuito al sostentamento della gente di questo territorio e ancora oggi permettono, a un pugno di aziende animate da fecondo spirito imprenditoriale, di produrre e commercializzare con successo quel “marroncino di Melfi” così ricercato per realizzare marron glacé. Chissà se Michael Matthews, il vincitore di tappa a Melfi, si sarà concesso almeno questo sfizio dopo la volata che lo ha visto protagonista!

Prima settimana del Giro d'Italia 2023
Prima settimana del Giro d’Italia 2023

Tra i rimboschimenti del Lago Laceno

La quarta tappa rappresenterà per la corsa rosa un importante scoglio: il primo arrivo in salita, dove la classifica potrà subire qualche iniziale scossone. La carovana rosa raggiungerà i 1.100 metri del Lago Laceno, in provincia di Avellino, luogo ricco di antiche storie di brigantaggio ma anche dei segni del passaggio di illustri studiosi forestali. Questo arrivo di tappa ci dà l’occasione per parlarvi di storia del pensiero forestale e di una pratica che ha caratterizzato l’attuale conformazione di molte foreste italiane: i rimboschimenti di conifere montane. La storia è quella dell’ingegner Generoso Patrone, originario di Bagnoli Irpino, il comune in cui è ubicato il Lago Laceno, uno dei più illustri studiosi forestali del Novecento che a fine anni Cinquanta fu chiamato a redigere, dopo il suo maestro, il professor Giuseppe Di Tella, il piano di gestione delle foreste di quest’area per gli anni 1959-1968.

Un piano decennale molto importante per la zona, perché veniva dopo decenni di intenso sfruttamento dei boschi (nell’Ottocento in queste montagne venne costruita addirittura una ferrovia per trasportare a valle il legname) ma anche dopo i primi, fondamentali, cantieri di rimboschimento. Le pinete di pino nero e silvestre che attraverseranno i corridori verso il finale di tappa non sono boschi naturali, ma piantati nella prima metà del Novecento a scopi di difesa idrogeologica e per dar vita al processo, ancora in atto, di rinaturalizzazione, attraverso l’affermazione delle latifoglie autoctone. Non a caso, vicino al Lago Laceno si trova un vivaio forestale intitolato proprio al professor Patrone, rappresentante di una generazione di studiosi che posero le basi, anche grazie ai rimboschimenti, per la rinascita del nostro patrimonio forestale. Se oggi il Laceno è una verde meta turistica, come mostreranno le immagini aeree della corsa rosa, è anche grazie ai boschi piantati, gestiti e studiati da questo e da tanti altri nostri maestri.

lago laceno, irpinia
Bagnoli Irpino, Campania, panorama dal lago Laceno

Alle falde del Vesuvio

L’11 maggio i ciclisti che si sfidano per la maglia rosa partiranno e arriveranno nella Napoli in festa per il terzo scudetto calcistico, passando per i paesi Vesuviani, per il Nolano e per la Costiera Amalfitana. Dei 22 comuni attraversati dalla sesta tappa, il primo ha un nome che non può non comparire nel nostro Giro delle Foreste d’Italia: Boscoreale. Oggi, nel paese adagiato alle falde del Vesuvio, di foreste non c’è neppure l’ombra, ma come in moltissimi luoghi d’Italia il nome geografico tradisce una storia forestale. Qui, un vasto bosco che arrivava fino al mare nacque spontaneamente in epoca medioevale, dopo che il territorio, prima affollato di ville nobiliari, venne colpito da eruzioni, incursioni barbariche e saracene, ed epidemie. Nel Duecento, Federico II di Svevia decise di utilizzare l’area come riserva di caccia; lo stesso fecero Carlo I, Carlo II e Roberto d’Angiò duecento anni più tardi, da cui il nome del paese. Ma poi, grazie all’attività di tre monasteri prima, e al ritorno alla coltivazione dei terreni vulcanici tra Cinquecento e Settecento, il bosco venne eliminato – oggi diremmo “deforestato”! – per far posto a campi, vigneti e paesi. Una storia che si è replicata in tutta Italia, e che ci racconta che i boschi che oggi vediamo intorno a noi non sono affatto sempre stati lì, ma da sempre si espandono o si rimpiccioliscono a seguito delle vicende umane.

C’è un’altra occasione in cui ci accorgiamo che le foreste sono in costante cambiamento: quando vengono danneggiate, e apparentemente distrutte per sempre, da una calamità. È il caso del grande incendio del Vesuvio dell’11 luglio 2017: 3200 ettari percorsi dal fuoco, cioè ben la metà della superficie del Parco nazionale istituito nel 1995, con un fronte di fuoco di oltre due chilometri. Una superficie enorme, una catastrofe avvenuta soprattutto a causa della siccità che nei quattro mesi precedenti aveva avvolto tutto il Sud Italia, rendendo la vegetazione molto più infiammabile e permettendo al fuoco di correre, indipendentemente da chi o cosa lo abbia innescato. A distanza di sei anni, le grandi cicatrici nere che segnavano le pendici del vulcano si sono rinverdite da sole, con erbe, arbusti, e le prime piantine delle specie forestali che sono specializzate nel ricolonizzare le aree messe a nudo dal fuoco: il pino marittimo tra le specie autoctone e la robinia tra quelle esotiche (e invasive). Un occhio attento potrà ancora notare, sullo sfondo dei rettilinei tra Torre Annunziata, Torre del Greco e Portici, le aree di pineta percorse dal fuoco, con una vegetazione più bassa e rada rispetto ai boschi circostanti dove il fuoco non è arrivato o è passato solo superficialmente sul terreno, senza toccare le chiome degli alberi. Un modo di bruciare molto meno dannoso per il bosco e per l’ambiente, ma che non è solo frutto del caso. Nelle parti di bosco dove pochi anni prima dell’incendio si era scelto di ridurre la vegetazione infiammabile, questo tipo di gestione è stata la migliore prevenzione. Proprio in quelle foreste, infatti, il fuoco si è “calmato”, passando rasoterra e lasciando in vita oltre il novanta per cento degli alberi, oltre a facilitare enormemente le operazioni di spegnimento. Un esempio virtuoso, costato molto meno rispetto alle operazioni di spegnimento, ripristino danni e rimboschimento nelle aree colpite più severamente dal fuoco. Un esempio che potrebbe essere replicato in molte altre zone boscate d’Italia ad elevato rischio incendi, specialmente durante una crisi climatica che causa siccità sempre più intense e frequenti e che rischia di spingere il comportamento e l’area percorsa dagli incendi a livelli senza precedenti nel nostro Paese.

Tra i Parchi d’Abruzzo

Venerdì 12 maggio andrà in scena la settima tappa, che si concluderà con l’arrivo in salita di Campo Imperatore, al cospetto del Gran Sasso d’Italia: un’ascesa resa mitica dalle gesta di un grandissimo del ciclismo italiano, Marco Pantani, che nel 1999 arrivò lassù a braccia alzate, tra cumuli di neve. Negli ultimi due arrivi in salita in Abruzzo il vincitore di tappa, Egan Bernal a Campo Felice nel 2021 e Jai Hindley sul Blockhaus nel 2022, si è poi aggiudicato il Giro d’Italia: una ragione per seguire con molta attenzione le dinamiche della corsa e anche, ovviamente, le foreste che le faranno da palcoscenico. Siamo infatti nel cuore verde (e protetto) degli Appennini: un territorio solcato dal Parco nazionale del Lazio, Abruzzo e Molise, dal Parco nazionale della Majella, dal Parco naturale regionale Sirente Velino e dal Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga, che ospita l’arrivo di tappa. Tra i molti boschi naturali di faggio lambiti dalla corsa segnaliamo la Foresta Demaniale Regionale Chiarano-Sparvera e quella, adiacente, di Valle Cupa. Questa è una delle aree di maggiore interesse per la presenza dell’orso bruno marsicano, sottospecie endemica dell’Appennino italiano arrivata sull’orlo dell’estinzione e faticosamente riportata a circa cinquanta individui. Un vero e proprio “corridoio ecologico” frequentemente attraversato dagli orsi che transitano tra il Parco d’Abruzzo e quello della Majella, come dimostrano i percorsi registrati dai radiocollari. Un territorio protetto dove da oltre trent’anni le foreste vengono gestite attivamente, facendo selvicoltura, ma con un obiettivo particolare: incrementare la loro biodiversità. Questi boschi, che fino agli anni Settanta erano in gran parte costituiti da cedui di faggio, sono stati “avviati” per trasformarli in boschi “d’alto fusto”, caratterizzati da un ciclo molto più lungo in grado di dare al bosco maggiore capacità di assorbire carbonio e proteggere il suolo dall’erosione. Non solo, è stato scelto di favorire una struttura “irregolare”, cercando di riprodurre la dinamica delle foreste vergini europee (quasi del tutto scomparse), dove gli alberi hanno dimensioni molto diverse tra loro e offrono quindi una più grande varietà di habitat per la fauna selvatica e legno morto utile agli insetti “saproxilici”, fondamentali nel ciclo di vita di una foresta naturale. Un bosco irregolare, discontinuo, disomogeneo in senso verticale e orizzontale, che ha dato inizio alla ricostituzione di un ecosistema più complesso e resiliente: un esempio di buona gestione forestale attiva all’interno di un territorio vocato alla conservazione della natura. Oggi, in un’area di circa dieci chilometri quadrati, sono presenti almeno sei diversi tipi di strutture forestali. Le aree in cui sono stati eseguiti gli interventi selvicolturali per modificare la struttura sono molto più frequentate dagli animali, che possono così diversificare al meglio le proprie attività e la propria dieta.

Foresta regionale di Chiarano-Sparvera
Foresta regionale di Chiarano-Sparvera © Luigi Torreggiani

Nel cuore dell’Umbria

L’ultima tappa in linea della prima settimana del Giro d’Italia 2023, alla vigilia della cronometro domenicale sulla costa romagnola, attraverserà l’Umbria, una delle “regioni verdi” d’Italia per antonomasia, con circa il cinquanta per cento della propria superficie coperta da foreste. A circa metà della tappa la carovana rosa lambirà le pendici orientali del Monte Subasio, la montagna di Assisi. Anche in questo caso il verde dei boschi che verranno mostrati in mondovisione nasconde un’interessante storia, di conflitto prima e poi di equilibrio, tra esseri umani e foreste. Nel Basso Medioevo il Subasio non era la montagna verde e boscosa di oggi. A seguito dell’aumento demografico e della nascita di centri urbani sempre più popolosi, la pressione sulle risorse forestali fu devastante: serviva legname da opera e occorrevano vaste aree per il pascolo e l’agricoltura, per questo ampie superfici di questa montagna furono completamente disboscate. A testimoniare questa situazione ci sono sia opere artistiche, come gli affreschi del Benozzo Gozzoli del Quattrocento che ritraggono la montagna quasi completamente spoglia, che documenti storici, come un divieto tassativo, dello stesso periodo, di tagliare la “Selva delle Carceri”, per garantire almeno la riservatezza dell’importante eremo francescano ubicato nelle vicinanze. La perdita di fertilità del suolo a causa del dilavamento fu enorme e la situazione divenne insostenibile. Per questo si iniziò a pensare, ai primi del Novecento, di rimboschire parte del Subasio. Mancavano però i soldi per realizzare questa grande opera e l’occasione per iniziare i lavori si presentò durante la Prima guerra mondiale, quando una particolare forma di manodopera fu disponibile a costo zero: i prigionieri. Fu proprio ai prigionieri austro-ungarici, di nazionalità cecoslovacca e ungherese, che venne affidato il compito di realizzare i primi rimboschimenti del Subasio. Da allora furono messe a dimora più di quattro milioni di piantine di varie specie, anche non tipiche della flora nazionale: oltre ai pini nero, d’aleppo e marittimo, all’abete bianco e a varie latifoglie autoctone, vennero piantatati infatti anche la douglasia, ogiginaria degli Stati Uniti, il cedro dell’Atlante e l’abete greco. Dalle immagini aeree della telecronaca potreste intravedere tante macchie con sfumature diverse di verde: ecco svelato il mistero. Oggi il Subasio è un Parco regionale e questa “grande opera viva” viene gestita attivamente con criteri di sostenibilità: da questi boschi tutelati si produce legname e al tempo stesso si dà spazio alla fruizione turistico-ricreativa, con sentieri per escursionisti e ciclisti, proteggendo al tempo stesso habitat e specie a rischio. E in questi boschi è conservato anche un albero “sacro”, ammantato di leggende e suggestioni: si tratta di un leccio monumentale, di un’età stimata tra gli 850 e i mille anni, ubicato all’interno dell’Eremo delle Carceri, proprio nelle vicinanze della grotta utilizzata da San Francesco. Quest’albero, data l’età, è stato molto probabilmente testimone diretto della vita del Santo patrono d’Italia e proprio per questo oggi fa parte dell’elenco degli “Alberi Monumentali d’Italia”, che censisce e tutela oltre quattromila esemplari che per la loro età, le loro caratteristiche o le particolari vicende storiche che li coinvolgono, sono considerati dei veri e propri “monumenti viventi”.

Monte Subasio
I rimboschimenti del Monte Subasio © iStockphoto

Per questa prima settimana di Giro è tutto ma continuate a seguirci, perché nella seconda e terza settimana si entrerà nel vivo della corsa e si attraverseranno tante altre numerose e variegate foreste, ricche di natura, di storia e di esempi, vecchi e nuovi, di sostenibilità.

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