Attualmente, 36 società del fossile sono responsabili di metà delle emissioni di CO2 a livello globale.
Venticinque di queste sono di proprietà statale.
I dati a disposizione fin dalla Rivoluzione industriale evidenziano che due terzi delle emissioni globali siano riconducibili a “sole” 180 aziende.
La metà delle emissioni globali di CO2 responsabili del riscaldamento climatico proviene dai combustibili fossili prodotti da appena 36 aziende. Secondo un nuovo report pubblicato sulla piattaforma Carbon Majors, queste 36 grandi compagnie – tra cui Saudi Aramco, Coal India, ExxonMobil, Shell e diverse aziende cinesi – hanno prodotto carbone, petrolio e gas che hanno generato oltre 20 miliardi di tonnellate di CO₂ nel 2023. Se Saudi Aramco fosse una nazione, sarebbe il quarto maggiore inquinatore del pianeta, dopo Cina, Stati Uniti e India. ExxonMobil, invece, ha emesso una quantità di CO₂ paragonabile a quella della Germania, il nono paese più inquinante al mondo.
Obiettivo: ridurre le emissioni del 45% entro il 2030
Per avere una possibilità concreta di limitare l’aumento delle temperature a 1,5 gradi – obiettivo fissato dagli Accordi di Parigi – le emissioni globali dovrebbero ridursi del 45 per cento entro il 2030. Se invece queste continueranno ad aumentare – come in effetti sta accadendo – gli eventi climatici estremi metteranno sempre di più a rischio vite e mezzi di sussistenza in tutto il pianeta.
Inoltre, l’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha avvertito che nuovi progetti legati ai combustibili fossili avviati dopo il 2021 sono incompatibili con l’obiettivo di azzerare le emissioni nette entro il 2050. Nonostante ciò, la maggior parte delle 169 aziende incluse nel database di Carbon Majors ha aumentato le proprie emissioni nel 2023, anno che ha registrato le temperature più alte mai registrate.
“Queste compagnie continuano a mantenere il mondo dipendente dai combustibili fossili, senza alcuna intenzione di ridurre la produzione”, ha dichiarato Christiana Figueres, ex responsabile Onu per il clima durante la firma dell’Accordo di Parigi del 2015. “La scienza è chiara: non possiamo tornare indietro, aumentando estrazione e utilizzo dei combustibili fossili. Dobbiamo invece guardare avanti e cogliere le opportunità offerte da un sistema economico decarbonizzato, che sia vantaggioso per le persone e per il pianeta”.
Anche Emmett Connaire, analista di InfluenceMap – il think tank autore del rapporto – ha sottolineato il ruolo di queste aziende nella crisi climatica: “Nonostante gli impegni globali sul clima, un ristretto gruppo di grandi produttori di combustibili fossili sta incrementando in modo significativo la produzione e le emissioni. La nostra ricerca evidenzia il loro impatto sproporzionato sulla crisi climatica e rafforza la necessità di misure per imporre loro una maggiore responsabilità”.
La replica delle big oil
In risposta alle accuse, un portavoce di Shell ha dichiarato: “Shell si impegna a diventare un’azienda a zero emissioni nette entro il 2050. I nostri investimenti in nuove tecnologie stanno contribuendo a ridurre le emissioni sia per noi che per i nostri clienti”. Saudi Aramco, invece, ha rifiutato di commentare il rapporto, così come Coal India, ExxonMobil, Chevron, TotalEnergies e BP non hanno risposto alle richieste di dichiarazioni.
In un contesto così “nero”, va evidenziato che i dati di Carbon Majors sono stati utilizzati per sostenere leggi approvate negli stati di New York e Vermont, negli Stati Uniti, che mirano a ottenere risarcimenti dalle compagnie petrolifere per i danni climatici. Inoltre, sono stati citati da gruppi legali come base per possibili accuse penali contro dirigenti del settore fossile e per azioni regolatorie, come la denuncia di ClientEarth contro BlackRock per presunte pratiche ingannevoli nei confronti degli investitori.
Insomma, il rapporto Carbon Majors, che calcola le emissioni derivanti dalla combustione di carbone, petrolio e gas, sono necessarie per l’azione contro la crisi climatica. Il database include anche le emissioni legate alla produzione di cemento, che nel 2023 sono aumentate del 6,5 per cento.
C’è anche l’italiana Eni
Naturalmente, tra le 36 aziende responsabili della metà delle emissioni globali nel 2023 c’è anche l’italiana Eni, oltre ad altre grandi imprese statali come China Energy (Cina), la National Iranian Oil Company (Iran), Gazprom (Russia), Adnoc (Emirati Arabi Uniti) e Petrobras (Brasile). Anzi, delle 36 compagnie ben 25 sono di proprietà statale (di cui 10 in Cina), a testimonianza dell’enorme responsabilità politica che si cela dietro questo scenario.
Il vero nodo della questione è che le cose sono sempre andate in questo modo. Infatti, il database Carbon Majors include anche le emissioni storiche dal 1854 al 2023, evidenziando come due terzi di tutte le emissioni di anidride carbonica derivanti dai combustibili fossili dall’epoca della Rivoluzione industriale siano riconducibili a 180 aziende, 11 delle quali oggi non esistono più.
La conclusione naturale è che da tempo immemore queste aziende devono essere chiamate a rispondere delle loro azioni: è essenziale, quindi, che venga finalmente riconosciuta la necessità di una giusta rendicontazione e di politiche di responsabilizzazione che mettano un freno a questa tendenza distruttiva.
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