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Moda, femminismo e patriarcato sono più intrecciati di quanto crediamo
Una minigonna non è solo una minigonna, così come gli slogan femministi sulle t-shirt di Dior: ecco come le lotte delle donne hanno cambiato la moda
- Moda, femminismo e patriarcato sono più interconnessi di quanto si potrebbe credere: tutto quello che indossiamo in una data epoca ci dice molto della società e delle tensioni interne ad essa.
- Indumenti come corsetti o pantaloni hanno una storia pregnante dal punto di vista delle lotte e delle conquiste femministe.
- Oggi slogan femministi hanno conquistato passerelle e red carpet, ma è importante chiedersi quali siano gli elementi che rendono veramente equa e inclusiva una società, anche dal punto di vista del look.
Tutto quello che noi oggi indossiamo più o meno senza porci troppi problemi ha una storia, porta con sé significati più o meno positivi, rivendica lotte. Nell’evoluzione del costume femminile ci sono indumenti ed epoche spartiacque che hanno rappresentato ora simboli di coercizione patriarcale, ora strumenti di lotta per il femminismo. Il corsetto è passato da essere uno strumento di costrizione a un indumento utile per esprimere liberamente la propria sessualità, i pantaloni hanno rappresentato per le donne un mezzo di emancipazione e così anche la minigonna.
Una cosa che è importante sottolineare però è che, un tassello fondamentale della società patriarcale in cui ci troviamo, riguarda quello che proviamo e pensiamo riguardo al corpo delle donne e al loro modo di vestire. Durante il Medioevo, ma anche durante il Rinascimento, in tutta Europa sono esistite leggi riguardanti l’abbigliamento, in particolar modo per le donne. Il corpo delle donne da allora non ha mai smesso di essere cosa pubblica, con tutto il controllo e le demarcazioni di cosa è considerato decoroso e appropriato e cosa no. Non solo, la bellezza è vista ancora come requisito fondamentale per le persone di genere femminile, che subiscono un’enorme pressione estetica in tal senso.
Il 53 per cento delle ragazze americane è “scontenta del proprio corpo”, percentuale che sale a 78 per cento al raggiungimento dei diciassette anni. Una percentuale che oscilla tra il 40 e il 60 delle ragazze delle elementari è preoccupata per il proprio peso o per il fatto di diventare “troppo grassa”. Il 59 per cento delle donne americane è insoddisfatta della propria forma fisica e il 66 per cento ha espresso il desiderio di perdere peso.
Questi dati, diffusi da Now Foundation, dimostrano come l’accettazione sociale per le donne passi ancora moltissimo attraverso l’aspetto esteriore. Se nel medioevo la circonferenza della vita era uno dei parametri in base a cui si poteva giudicare lo status sociale di una donna, oggi la situazione non è poi tanto diversa e, nonostante i passi avanti compiuti dalle lotte femministe siano stati enormi, molti ancora sono gli stereotipi da abbattere quando si parla di aspetto femminile.
Il corsetto, tra patriarcato e Vivienne Westwood
Per decenni, il corsetto è stato un simbolo dell’oppressione patriarcale, funzionale a rendere le donne immobili, passive e inclini a svenimenti, con una parte del loro valore sociale dipendente dalla circonferenza della loro vita perché, come sostiene la storica della moda Valerie Steele in “The corset: a cultural history”, venivano valorizzate la rigidità e il controllo in contrapposizione alle classi lavoratrici, più libere nei costumi e dal corpo piegato dal lavoro nei campi.
David Kunzle in “Fashion and fetishism” lo descrive come “l’orrore sociale vittoriano per antonomasia”. Le stecche in osso di balena, e successivamente in acciaio, circondavano le costole e comprimevano la vita naturale provocando ridotta vitalità, deformità delle costole, danni agli organi interni, malformazioni congenite e aborti spontanei.
Non vi sarà sfuggito che il corsetto è tornato con prepotenza nei look di star e persone comuni: dopo che Vivienne Westwood negli anni Settanta lo aveva risignificato, facendolo passare da indumento intimo a indumento cool, oggi la Gez Z, complice anche prodotti culturali come la serie Netflix “Bridgerton”, lo sta amando di nuovo.
Vivienne Westwood prima e Jean-Paul Gaultier poi – ricordate il corsetto con le coppe a cono indossato da Madonna durante il Blonde ambition tour? – hanno visto nel corsetto un mezzo con cui dare alle donne il controllo sull’espressione della propria sensualità, facendolo passare da simbolo di rigidità e rispettabilità ad oggetto utile ad abbattere un tabù.
Come scrive Valerie Steel, grazie a quel corsetto Madonna sbatte in faccia al mondo la sua sessualità. Oggi, che lo ha indossato pure Blanco sul palco di Sanremo, stiamo assistendo a una ulteriore risignificazione di questo capo, che progressivamente sta perdendo la sua connotazione di genere.
Pantaloni: Amelia Bloomer, Coco Chanel e power dressing
Conoscete Amelia Bloomer? Solitamente la risignificazione dei pantaloni come indumento femminile viene associata a Coco Chanel, ma in realtà quello che ha fatto la designer è renderli desiderabili per le signore dell’alta società.
I primi pantaloni da donna, che si chiamavano “bloomers” furono appunto una trovata della giornalista femminista Amelia Bloomer. Fu lei a fondare il primo giornale femminile diretto interamente da una donna, “The Lily”, pubblicato per la prima volta nel 1849 e mezzo tramite cui Amelia suggerì alle donne di utilizzare abiti meno restrittivi, come i pantaloni zuava. Successivamente la giornalista fu coinvolta in un movimento di riforma dell’abbigliamento femminile, e in questa occasione indossò i primi pantaloni da donna, chiamati in suo onore “bloomers”, ovvero pantaloni molto larghi, stretti alla caviglia e con una gonna corta in cima che incontrarono da subito l’ostilità di stampa e opinione pubblica e non perché mancassero di pudore, di stoffa ce n’era pure troppa, ma per l’incongruenza di far indossare alle donne un capo maschile.
Il fatto di poter indossare indumenti comodi e adatti a fare determinate attività, come ad esempio lo sport, è stata una conquista importante ma sottende un bias fondamentale: quei capi servivano alle donne per “fare cose da uomini”. Quando le donne hanno iniziato ad avere carriere lavorative paragonabili a quelle degli uomini, quindi non relegate a ruoli di cura o a mestieri tradizionalmente considerati come femminili, per loro si è reso necessario, per farsi prendere sul serio, adottare vestiti considerati propri del guardaroba maschile come camicie e giacche dal taglio over.
La minigonna e la rivoluzione sessuale
Altri cambiamenti significativi in fatto di abbigliamento femminile sono intercorsi poi negli anni Sessanta e Settanta: uno su tutti l’irriverente design della minigonna ad opera di Mary Quant, che è presto diventata un simbolo della rivoluzione sessuale innescata dall’avvento della pillola contraccettiva. Gonne così corte all’epoca rappresentavano l’abbigliamento femminile considerato socialmente accettabile e riflettevano la nuova identità delle donne, che si stava allargando oltre i ruoli domestici.
“Il personale è politico” è uno degli slogan femministi più noti e risale ai gruppi di autocoscienza femministi di quegli anni. Ebbene, indossare la minigonna all’epoca, era ben più di una precisa scelta di look, implicava una presa di posizione sociale, culturale e politica. Man mano che le giovani donne acquisivano una maggiore consapevolezza di come la società le trattasse in modo diverso rispetto ai loro coetanei maschi, si unirono per lottare per il loro diritto di indossare una gonna più corta, ma anche di disporre liberamente del proprio corpo e della propria sessualità.
E adesso?
Il look di quella che viene definita come la quarta ondata femminista si discosta dai movimenti precedenti: chi si definisce femminista oggi non abbraccia un solo modo di vestire, ma anzi, la concezione stessa di lotta di femminista coinvolge la libertà di vestirsi esattamente secondo il proprio gusto e il proprio stile.
Cosa buona e giusta se vivessimo in un mondo ideale. Peccato che nel 2015, non negli anni Cinquanta, in una città dell’Alabama sia stato proposto di vietare la minigonna, mentre un senatore dello stato del Kansas vietò nello stesso anno il suo utilizzo alla parte femminile del suo staff. Episodi come questi uniti alla pressione estetica di cui abbiamo parlato all’inizio di questo articolo dimostrano come ancora oggi i codici di abbigliamento femminili siano tutt’altro che liberi.
La strada è ancora lunga, ma i messaggi femministi oggi sono letteralmente protagonisti di passerelle e red carpet. Dalla manifestazione femminista inscenata da Karl Lagerfeld per la sfilata primavera estate 2015 di Chanel, alla t-shirt “We should all be feminist” che Maria Grazia Chiuri ha proposto per la primavera estate 2017 di Christian Dior al look di Cara Delevigne al Met Gala del 2021 in cui indossava un giubbotto antiproiettile riportante la scritta “Peg the patriarchy” slogan coniato dalla divulgatrice ed educatrice sessuale queer nera Luna Matatas e traducibile con “Mettilo in quel post al patriarcato”.
Sempre Maria Grazia Chiuri è la mente e la mano dietro ai look sanremesi di Chiara Ferragni, fin troppo didascalici nel loro voler esternare messaggi femministi. Ma, slogan a parte, che per la loro capacità di essere incisivi e arrivare a molte persone per forza di cosa semplificano di molto la realtà, quello che è importante è lavorare per creare immaginari variegati, per allentare la pressione estetica e per incoraggiare l’espressione personale.
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