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La Settimana della moda milanese si è conclusa e sono stati molti i progetti dedicati alla sostenibilità. Ecco la nostra selezione.
Di stagione in stagione alla Milano fashion week si moltiplicano i progetti dedicati a una moda più sostenibile per le persone e per il Pianeta; se in alcuni casi l’interesse verso le tematiche ambientali è a scadenza e decade quando i riflettori della Settimana della moda si spengono, in altri si può leggere una reale e sincera sensibilità che va ben oltre la cinque giorni milanese.
Al netto di strategie di greenwashing che è abbastanza semplice smascherare, sono stati molti i momenti istituzionali – promossi dalla Camera nazionale della moda italiana (Cnmi) – e le iniziative private attraverso cui poter entrare in contatto con realtà più o meno emergenti che, per esempio, basano il loro lavoro sul riutilizzo di materiali di scarto o ricorrono alla moda come strumento per creare cambiamenti sociali positivi.
Ciò non toglie che il mezzo attraverso cui queste realtà vengono presentate, ovvero la Fashion week, resti di fatto ancora un modello non sostenibile e non più al passo con i tempi. Basti pensare che l’edizione appena conclusa a Milano ha visto l’affollarsi di ben 165 appuntamenti in calendario (tra sfilate, presentazioni ed eventi) che hanno un forte impatto sia sulla salute mentale dei professionisti del settore – giornalisti, Pr e dipendenti dei singoli marchi di moda – costretti a ritmi più che frenetici, sia a livello ambientale.
Si stima che durante il Fashion month – ovvero il mese dedicato alle settimane della moda di Milano, Parigi, Londra e New York – vengano emesse 241mila tonnellate di CO2 tra voli continentali e intercontinentali, taxi e noleggi con conducente che fanno avanti e indietro da un capo all’altro della città per i buyer e i designer che vi partecipano. Una cifra che equivale a tenere accesa per circa 3mila anni la torre Eiffel di Parigi. A riportarlo è uno studio del 2020 della compagnia fashion tech Ordre.
Purtroppo sono concettualmente molto lontani i tempi in cui, in piena pandemia, Giorgio Armani invocava un “rallentamento attento e intelligente” del settore nella famosa (ma apparentemente dimenticata) lettera aperta alla rivista Women’s wear daily (Wwd).
Cuore pulsante delle nuove proposte è stato il Fashion hub di Cnmi al Palazzo Giureconsulti, luogo di incontro e fucina di progetti innovativi, supportato dal Ministero degli affari esteri e della cooperazione internazionale e da Ice, l’agenzia per la promozione all’estero delle imprese italiane.
Designers for the planet, giunto alla sua settima edizione, ha visto protagoniste le collezioni di brand emergenti che fanno del rispetto dell’ambiente una loro caratteristica fondativa e imprescindibile. Collezioni che rappresentano nuove e differenti maniere di pensare al futuro della moda. Pairi Daeza, parola dell’antico persiano che significa ‘giardino recintato’ e dunque ‘paradiso’ in molte lingue moderne, è il brand fondato da due sorelle iraniane concentrate a fare del nostro Pianeta appunto un paradiso, fondato sul rispetto dell’ambiente e delle diverse persone che lo abitano. Be Nina recupera vecchi uncinetti italiani per centrini o tovaglie e ne fa abiti dall’allure estremamente contemporanea; Sake produce capi in pelle vegetale provenienti dall’albero della Shiringa o “gomma naturale” che cresce in abbondanza nella foresta amazzonica e viene estratta in maniera sostenibile dalle comunità indigene della foresta pluviale. Il marchio eponimo di Ilaria Bellomo propone abiti prodotti con un telaio per tessitura a mano a partire da filati naturali, scarti di tessuti già esistenti e capi vintage.
All’interno del calendario ufficiale della Settimana della moda e in armonia con questo, quest’anno è andata in scena la nona edizione dell’Afro fashion week, una settimana dedicata ai temi della diversità e dell’inclusione attraverso sfilate, presentazioni e tavole rotonde curate da Michelle F. Ngomno, fondatrice dell’associazione Afro fashion.
Sulla scorta del tema di quest’anno “Connecting all stories”, gli appuntamenti si sono concentrati sul sottolineare l’importanza di una visione multiculturale del Made in Italy e di far emergere giovani talenti Bipoc (Black, indigenous and people of color). Moltissimi i nomi emersi: da Eileen Akbaraly di Made for a woman che impiega donne vulnerabili in Madagascar; passando per Paul Roger Tanonkou di Zenam ( “raggio di luce” nelle lingue bamiléké) che ha lavorato con le donne di Camerun e Mali; fino a Akilah Stewart di Fatra (parola haitiana per ‘spazzatura’) che ricorre alla moda come catalizzatore per l’attivismo sociale e ambientale da oltre 10 anni e riutilizza in maniera creativa rifiuti plastici.
Dell’importanza della rappresentazione e della visibilità delle minoranze ha parlato anche il progetto A global movement to uplift underrapresented brands, iniziativa che ha il fine di porre all’attenzione realtà sottorappresentate. A.Potts, Diotima e Torlowei sono i designer che sono stati selezionati per quest’edizione, che hanno avuto la possibilità di presentare le loro creazioni davanti a un pubblico internazionale per cinque giorni.
Nato dalla collaborazione tra Cnmi e l’Agenzia ungherese per la moda e il design, l’iniziativa Budapest select ha dato rilievo, tramite una sfilata collettiva e una presentazione, ai giovani marchi ungheresi.
Tra questi ad emergere sono state la collezione di Zsigmond di Dora Zsigmond che, attingendo alla tradizione folkloristica del Paese, propone capi prodotti in modo eco-consapevole ed etico utilizzando tessuti organici e riciclati acquistati da produttori europei trasparenti e certificati.
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