
Il documentario The war show mostra un gruppo di giovani amici filmarsi per tre anni durante la guerra in Siria. In questa intervista esclusiva, il co-regista Andreas Daalsgard svela i retroscena dell’opera.
Dopo il successo a Venezia, arriva al cinema il documentario Notturno, del regista Gianfranco Rosi. Un mosaico di umanità ferite, in cerca di nuova luce.
Lì, dove finiscono i notiziari, comincia Notturno (al cinema dal 9 settembre), il documentario con cui Gianfranco Rosi ci accompagna nel cuore ferito del Medio Oriente. Non un trattato geopolitico sulle complicate vicende che da decenni affliggono quelle terre martoriate, ma un ingresso, fatto “in punta di piedi”, nella vita e nella quotidianità di quei popoli. Un tentativo di catturare le conseguenze che guerre e colpi di stato hanno lasciato sulla gente e sul territorio.
Salutato da dieci minuti di applausi, Notturno è stato presentato ieri in concorso nella sala grande del Palazzo del cinema al Lido di Venezia, alla 77esima Mostra del Cinema. Un parterre che aveva già dimostrato di apprezzare il regista, attribuendogli un primato nel 2013, quando il suo Sacro Gra divenne il primo documentario a vincere il Leone d’Oro nella storia del festival. Anche allora al centro delle sue riprese aveva voluto mettere un’umanità invisibile: quella che viveva intorno al grande raccordo anulare della Capitale.
Con lo stesso sguardo discreto, qualche anno dopo, Rosi ci aveva raccontato anche il dramma dei migranti sull’isola di Lampedusa in Fuocoammare, vincitore dell’Orso d’Oro nel 2016 e candidato ai premi Oscar nel 2017. Tutte opere cucite insieme da un unico filo conduttore: il desiderio di far parlare le immagini, dar voce agli sguardi e lasciar “accadere” la realtà davanti alla macchina da presa, facendola quasi scomparire.
Per realizzare Notturno il regista ha trascorso tre lunghi anni tra i confini di Iraq, Kurdistan, Siria e Libano. Una vocazione, più che un lavoro, per la quale Rosi sapeva di mettere a rischio la sua stessa vita. Un’esperienza “difficile da rielaborare e di impatto fisico ed emotivo fortissimo”, come il regista ha raccontato all’Ansa a Venezia. “Passare tre anni in posti sconosciuti, senza conoscerne la lingue, stare per mesi in luoghi sperduti, pericolosi, feriti, ti fa tornare diverso e ancora ringrazio i miei produttori che a distanza mi consolavano, mi davano coraggio”.
Lui, che non è certo nuovo a permanenze scomode, se si pensa che per il suo documentario Below Sea Level (premiato sempre a Venezia nel 2008 nella sezione Orizzonti) era rimasto per anni in una comunità di homeless, stanziati in una base militare dismessa a duecentocinquanta chilometri da Los Angeles e quaranta metri sotto il livello del mare.
I suoi protagonisti sono sempre gli stessi: i reietti, i dimenticati e i disperati. Anime ferite più nell’anima che nel corpo dalla cattiveria umana. Forse mai come stavolta.
In Medio Oriente, durante le riprese del film, ho incontrato le persone che vivono nelle zone di guerra. Ho voluto raccontare le storie, i personaggi, oltre il conflitto. Sono rimasto lontano dalla linea del fronte, ma sono andato là dove le persone tentano di ricucire le loro esistenze. Nei luoghi in cui ho filmato giunge l’eco della guerra, se ne sente la presenza opprimente, quel peso tanto gravoso da impedire di proiettarsi nel futuro. Ho cercato di raccontare la quotidianità di chi vive lungo il confine che separa la vita dall’inferno.
Un mosaico di storie che va al di là delle divisioni geografiche e che tenta di creare una breccia nelle coscienze degli spettatori, ormai anestetizzate al male.
Poche righe introduttive contestualizzano il film, per poi lasciar parlare sono solo le immagini e i protagonisti. La macchina da presa non ci porta mai all’interno dei conflitti, ma ci mostra le macerie materiali e psicologiche lasciate su questi popoli da guerre, tirannie e ingerenze esterne.
L’obiettivo del regista valica confini, entra nelle case, nelle prigioni e persino in una clinica psichiatrica, senza fornire dettagli precisi, ma affidando tutto alla percezione visiva ed emotiva. È così che ascoltiamo il canto luttuoso delle madri curde, che piangono figli torturati e uccisi dalle dittature. Ci avventuriamo tra i canneti insieme a un cacciatore di frodo, mentre sullo sfondo il conflitto armato incendia la notte. Entriamo a casa di Alì, un adolescente che si sacrifica per sostentare la sua numerosa famiglia. Assistiamo alla messa in scena teatrale e patriottica di un gruppo di pazienti psichiatrici. Osserviamo le guerrigliere peshmerga nel loro rituale compito di difesa del campo di battaglia. Visitiamo un carcere sovraffollato di terroristi islamici, resi uguali e anonimi da una pena che non basterà a cancellare gli orrori commessi.
Ma il colpo basso – e tuttavia essenziale – del film arriva con i racconti dei bambini della comunità Yazida, sopravvissuti alla furia dell’Isis. I loro balbettii, insieme ai disegni che ritraggono tutto il male da loro visto e subito durante la prigionia, sono un punto di non ritorno per la coscienza. Sono il fondo di quella lunga notte buia raccontata da Rosi, che pure ammette le sue remore nell’inserire questa parte nel film, concludendo che non mostrarli sarebbe stato ipocrita.
In quella stanza c’è una testimonianza storica fondamentale: la memoria degli orrori.
La situazione mediorientale raccontata come una lunga notte. Questa la scelta del regista, rispecchiata anche dal titolo, Notturno. Un buio reale e metaforico, che avvolge luoghi e persone, depredate del proprio futuro, della dignità e della speranza. Quel buio che non lascia dormire i bambini, perseguitati dagli incubi di ciò che hanno subito. Il buio del non senso, che ci pervade di fronte alla gratuità di un male intollerabile. Il buio di chi vive in balia di poteri oscuri che determinano senza pietà il suo destino. Una lunga notte a cui il regista non ha voluto infine cedere, dando vita a un “film di luce sul buio delle guerre”.
Notturno è un film che non ci dà risposte e non ci spiega niente. È un film che dal cervello arriva allo stomaco. Un film che non traccia confini e che restituisce volto e anima a luoghi invisibili e diventati ormai solo pezzi di titoli di cronaca.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Il documentario The war show mostra un gruppo di giovani amici filmarsi per tre anni durante la guerra in Siria. In questa intervista esclusiva, il co-regista Andreas Daalsgard svela i retroscena dell’opera.
Farid Eslam ha catturato la musica delle primavere arabe in un film dove si incrociano la vita, i sogni e le speranze degli artisti underground del Medio Oriente.
In occasione della Giornata mondiale per l’abolizione della schiavitù ecco una serie di film per approfondire un fenomeno oscuro e terribile.
La fondatrice del Fashion film festival Milano Constanza Etro racconta la categoria “For green”, dedicata a una moda che si riconcilia con il Pianeta.
Ecco 10 cortometraggi dall’edizione 2023 di Cinemambiente selezionati dalla redazione di LifeGate e dalle studentesse e studenti del progetto NextJournalist.
Abbiamo incontrato l’artista Anne de Carbuccia per l’uscita del suo primo lungometraggio documentario: Earth protectors.
Il film Everything everywhere all at once ha trionfato agli Oscar 2023 con 7 statuette. Ecco le storie di dolore e riscatto di alcuni premiati del cast.
L’Italia è presente alla prossima edizione dei premi Oscar con due artisti: Alice Rohrwacher e Aldo Signoretti. Il 12 marzo la notte degli Oscar.
Il carbonio spiegato in maniera accessibile, uno scienziato che va in Siberia a salvare i mammut e altre storie: ecco chi ha vinto Cinemambiente 2022.