Prendiamoci cura del clima

Coronavirus e cambiamenti climatici, perché il Pianeta è a un bivio

Lo sviluppo insostenibile non è solo responsabile dei cambiamenti climatici, ma anche concausa delle epidemie. Eppure c’è chi già chiede di salvarlo.

Il coronavirus sarà benefico o dannoso per la lotta ai cambiamenti climatici? A prima vista, i dati relativi alle prime settimane di confinamento sembrano indicare la prima strada. È stato calcolato, ad esempio, che durante ogni giorno di “lockdown” dovuto all’emergenza-coronavirus, in Europa viene emesso soltanto 42 per cento delle emissioni di CO2 che vengono disperse normalmente nell’atmosfera.

Con la crisi del coronavirus calano le emissioni di CO2. Ma…

E se, in ciascuna nazione, il periodo di stop alle attività durasse 45 giorni, si eviterebbero emissioni per 145 milioni di tonnellate da parte dei Ventisette paese membri dell’Unione europea. Un rapporto della società di consulenza Sia Partners di Parigi ha precisato inoltre che il calo annuo sarebbe pari al 5 per cento.

Allo stesso modo, Marshall Burke – ricercatore dell’università di Stanford, in California – ha calcolato che il miglioramento della qualità dell’aria in Cina potrebbe aver evitato la morte di 4mila bambini al di sotto dei 5 anni. E di 73mila persone anziane. “Rispetto al numero di morti dovuti al coronavirus, la riduzione degli agenti inquinanti ha probabilmente salvato la vita ad un numero di persone 20 volte superiore”, ha scritto lo studioso.

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La realtà, però, è che il coronavirus rischia di rappresentare una bomba ad orologeria per il clima. O, meglio, un boomerang. La recessione scatenata dal confinamento sarà infatti devastante, in molte nazioni. E il rischio è che si decida di mettere da parte i paletti necessari per limitare la crescita della temperatura media globale in nome della necessità di riavviare immediatamente la macchina economica.

“Non esiste un vaccino contro i cambiamenti climatici”

Parola d’ordine ripartire, dunque. Ad ogni costo. François Gemenne, ricercatore dell’università di Liegi, in Belgio, e membro dell’Ipcc (il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico), ha sintetizzato efficacemente il problema: “Il riscaldamento globale non è una crisi: è una trasformazione irreversibile. Non ci sarà alcun ritorno alla normalità. Non esiste un vaccino contro i cambiamenti climatici. Ci vorranno misure strutturali, che impongono una reale trasformazione della società e dell’economia”.  

Centrali a carbone, Cina
Un mercato nei pressi della centrale a carbone di Huainan, nella provincia cinese di Anhui © Kevin Frayer/Getty Images

Al contrario, il Canada sembra intenzionato a salvare e rilanciare le proprie industrie petrolifere e del gas. La Cina si prepara a costruire nuove centrali a carbone. La Repubblica Ceca e la Polonia hanno già chiesto – più o meno ufficialmente – di abbandonare il Green new deal, il piano economico europeo che punta a garantire sviluppo puntando ad azzerare le emissioni nette entro il 2050.

Ascolta “07. Coronavirus, quando una pandemia apre il decennio più importante per il clima” su Spreaker.

Si moltiplicano le richieste di tornare al “business as usual”

A tutto ciò si aggiunge il fatto che la Cop 26, la ventiseiesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, alla quale il mondo si sarebbe dovuto presentare con nuovi impegni di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra, non si terrà come previsto a novembre in Scozia, bensì nel 2021. Dal punto di vista delle aziende, inoltre, già si parla di abolire la “plastic tax”. E Jennifer Janzen, portavoce di Airlines4Europe, associazione che rappresenta sedici compagnie aeree europee, ha chiesto ai governi di sospendere l’introduzione di un’ecotassa sui biglietti aerei. Il mondo è dunque, davvero, ad un bivio. Da una parte, sfruttare l’emergenza per rilanciarsi in modo sostenibile. Dall’altra, tornare al “business as usual” (ovvero in picchiata verso la crisi climatica). “Ma mancano i soldi, non possiamo fare tutto”, ha affermato il governo di Varsavia. Il che è, in gran parte, falso.

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È vero infatti che la recessione provocata dal coronavirus sarà epocale. Ed è vero che i costi per le casse degli stati saranno altissimi. Ma è vero pure che il mondo, già dopo la crisi del 2008, ha di fatto rifiutato di adottare sistemi in grado di drenare (recuperare) denaro da settori poco o per nulla tassati.

Il momento buono per riparlare di tassa sulle transazioni finanziarie

Per anni, ad esempio, si è discusso dell’introduzione di una tassa sulle transazioni finanziarie. Un prelievo piccolissimo, non superiore allo 0,05 per cento, imposto però su tutte (anche se sulla base imponibile ci sono state ampie discussioni) le transazioni effettuate sui mercati. Che, secondo uno studio dell’Austrian Institute for Economic Research potrebbe fruttare tra i 500 e i 1000 miliardi di dollari l’anno. Anche a fronte di una potenziale riduzione di circa il 65 per cento delle attività finanziarie conseguente all’introduzione della tassa stessa. Oggi quell’enorme mole di denaro potrebbe essere utilizzata per sostenere lo sforzo dei servizi sanitari, per alleviare la sofferenza di chi ha perso il posto di lavoro, per aiutare gli stati a pagare sussidi e casse integrazioni, per accelerare il processo di transizione ecologica rilanciando i motori economici.

india coronavirus confinamento
L’India ha imposto il confinamento totale dei suoi 1,3 miliardi di abitanti, per via dell’epidemia di coronavirus © Sanjay Kanojia/Afp/Getty Images

Al contrario, il mondo della finanza non soltanto è riuscito a scampare – anche grazie ad un’intensa attività di lobbying – alla tassa. Evitando di fatto una “redistribuzione” di parte della ricchezza a vantaggio dell’economia reale. Ma ha continuato anche a gestire gli enormi capitali che è in grado di muovere senza considerare le esigenze del Pianeta. La prova è contenuta nell’edizione 2020 del rapporto Banking on Climate Change, pubblicato mercoledì 18 marzo da un gruppo di organizzazioni non governative ecologiste.

Dalle banche 2.700 miliardi di dollari alle fonti fossili

Il documento spiega infatti che le principali banche del mondo hanno concesso, a partire dal 2016 – anno successivo all’approvazione dell’Accordo di Parigi – finanziamenti pari a 2.700 miliardi di dollari al settore delle energie fossili. Come se quell’Accordo non esistesse. Come se la comunità scientifica, in modo pressoché unanime, non ci avesse avvisati da anni sulla necessità di abbattere le emissioni di CO2.

Le compagnie d’assicurazione non sono da meno. A confermarlo, nel 2018, è stato un rapporto dell’Asset Owners Disclosure Project, ong specializzata nell’analisi delle politiche ambientali dei grandi istituti finanziari. Il documento ha fornito una sorta di “rating ambientale”: un voto assegnato alle dieci principali compagnie del mondo. E il risultato è disarmante: il 90 per cento dei gruppi è risultato non allineato alle politiche necessarie per limitare il riscaldamento globale a 2 gradi centigradi, come richiesto dall’Accordo di Parigi.

Il 90 per cento delle compagnie d’assicurazione non è allineato all’Accordo di Parigi

Per giungere a tale conclusione, il report ha analizzato le politiche di gestione dei rischi climatici, gli obiettivi di riduzioni delle emissioni di gas climalteranti e le strategie d’investimento di 80 compagnie d’assicurazione, che rappresentano asset per circa 15mila miliardi di dollari. Di queste, soltanto quattro sono riuscite ad ottenere una “doppia A” o una “tripla A” (il voto migliore). Si tratta dei gruppi Axa, Aviva, Allianz e Legal & General. Le peggiori al mondo, al contrario, sono le cinesi New China Life Insurance e China Life Insurance Company, le giapponesi Zenkyoren e Mitsui Life, la taiwanese Chunghwa Post e le statunitensi  MassMutual, Aflac e Pacific Life.

Tutto ciò conferma la mancanza di sostenibilità del nostro sistema di sviluppo. In termini di stabilità economica, di cambiamenti climatici, ma anche di sicurezza sanitaria. Uno studio dell’università Sapienza di Roma (pubblicato dalla rivista scientifica Pnas) ha indagato i punti di contatto tra l’attuale epidemia di coronavirus e quelle, precedenti, di Sars, H1N1, Zika e Mers. Concludendo che il denominatore comune è la loro origine zoonotica: ciò significa che le patologie sono state trasmesse all’uomo dagli animali.

Il rapporto tra sviluppo insostenibile, clima impazzito e epidemie

Le ragioni? Secondo i ricercatori, esse sono da rintracciare nella troppo marcata densità di popolazione umana in determinate aree. Nei livelli insostenibili di caccia. Nel traffico illegale di animali selvatici. Nella perdita di habitat naturali e nella deforestazione, che aumentano i contatti tra esseri umani e animali selvatici. Ma anche nelle attività di allevamento intensivo di bestiame.

Un’analisi del Wwf ha, in questo senso, indicato che “tra tutte le malattie emergenti, le zoonosi di origine selvatica potrebbero rappresentare in futuro la più consistente minaccia per la salute della popolazione mondiale. Gli effetti diretti o indiretti dei cambiamenti climatici possono influenzare il rischio di diffusione e trasmissione di queste patologie, ipotizzandone i possibili risvolti per la salute umana. Il riscaldamento climatico incide significativamente sulle caratteristiche fisiche dell’ambiente in cui le specie si trovano a vivere, sia in termini di variazioni di temperatura sia di disponibilità idrica e di altri fattori, influenzando il metabolismo, la riproduzione, la possibilità di sopravvivenza e, quindi, la distribuzione nel tempo e nello spazio”.

Il clima può avere un impatto sulle specie “serbatoio” e sui “vettori”

L’associazione ecologista ha specificato inoltre che “il clima può avere un impatto significativo anche su quelle specie che ospitano patogeni (specie serbatoio) o che li trasportano (specie vettori). E pertanto può influenzare la loro possibilità di infettare altre specie, incluso l’uomo”.

La crisi del coronavirus, dunque, non fa altro che confermare l’insostenibilità degli strumenti di cui l’uomo si è dotato per assicurarsi prosperità. La protezione del clima, della biodiversità e degli ecosistemi, da un lato, e quella della nostra salute, dall’altro, sono due facce della stessa medaglia. Possiamo ancora scegliere quale futuro vogliamo garantire a noi e ai nostri figli. A patto di chiedere a tutti – cittadini, politica, imprese – di cambiare strada.

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