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C’è una storia favolosa che pare la sceneggiatura di un film. Invece è la realtà, quella classica che supera la fantasia. E’ Searching for Sugar Man.
La scorsa settimana, all’85° edizione dei
premi
Oscar, accanto a grandi produzioni plurinominate e
premiate (come Lincoln o Les Miserables)
e documentari molto impegnati sia politicamente che socialmente (il
palestinese Five broken cameras
e l’israeliano The Gatekeepers, che
mettevano in scena la stessa realtà da due punti di vista
opposti, per esempio) c’era una piccola pellicola, girata in parte
in super 8 e in parte con un iPhone (tramite
questa applicazione) perché i fondi per la sua
realizzazione erano terminati prima di finire le riprese. Quella
piccola pellicola era Searching
for Sugar Man, la vincitrice della categoria
miglior documentario.
Il film del giovane regista svedese Malik
Bendjelloul racconta la straordinaria vicenda di
Sixto Díaz Rodríguez,
musicista ispano-americano di Detroit, meglio (s)conosciuto come
Rodríguez. Sulla
fine degli anni sessanta il cantante era stato notato da due famosi
produttori musicali dell’epoca che gli avevano poi fatto incidere
due album per l’etichetta Sussex: Cold Fact del
1970 e Coming From Reality del 1971. Dopo qualche
live in Australia, nulla più: i suoi dischi rimasti
invenduti, la sua musica finita nel dimenticatoio e lui sparito
dalla circolazione, rassegnato ad una vita semplice e più
che normale lontano dai palchi, fatta di lavori saltuari come
operaio in una Detroit simbolo dell’America industriale.
La sua vita procede nello stesso modo per quarant’anni,
intervallata solo da qualche concerto amatoriale in locali di
quart’ordine della città e poco più. Tutto questo
ignorando un piccolo particolare: il suo nome è un culto in
Sud Africa, dove è più conosciuto di Elvis Presley e
dove la sua musica e i suoi testi sono simbolo di libertà e
di lotta così come negli Stati Uniti lo sono i versi di Bob
Dylan.
Il fenomeno Rodríguez era, infatti,
esploso in Sud Africa negli anni ottanta: pare che una ragazza
americana avesse regalato una cassetta bootleg di contrabbando
dell’album Cold Fact a un suo amico di
Johannesburg, il quale lo aveva trasmesso per
radio. Di lì a poco migliaia di copie venivano messe in
circolazione clandestinamente nonostante le autorità ne
vietassero la riproduzione in pubblico, e le sue note e le sue
parole divenivano presto l’inno di protesta dei giovani bianchi
sudafricani nei confronti dell’assurdo regime dell’apartheid. Un
successo travolgente. Il mito venne alimentato ancora di più
da strane leggende sulla sua morte: non riuscendo a trovare nessuna
informazione sul conto di Rodríguez,
i fan sudafricani lo diedero ben presto per morto a causa di
overdose da eroina, o in prigione dopo aver sparato alla moglie, o
ancora sul palco ucciso da un colpo di pistola alla tempia.
La svolta avviene nel 1998: due fan decidono di mettersi sulle
tracce di Sixto e grazie all’aiuto di un giornalista riescono
(quasi inspiegabilmente) a trovarlo e a convincerlo a tenere un
concerto proprio a Johannesburg. Il pubblico non ci può
nemmeno credere, molti pensano che quello che si presenterà
sul palco sarà un impostore. Ma al primo accordo non ci sono
dubbi: Rodríguez è
resuscitato. Oppure non è mai morto. Il suo tour in Sud
Africa fa sold out ma negli Stati Uniti il suo nome continua ad
essere pressoché sconosciuto. Ma ora Searching for Sugar Man
(che ha vinto decine di premi prima di approdare all’Oscar) lo ha
reso pubblico in tutto il mondo e il settantenne Sixto Diaz
Rodríguez è già
riuscito a suonare su palchi celebri come l’Highline
Ballroom di New York o il Roundhouse di
Londra.
Chi lo ha visto dal vivo, racconta di un live emotivamente
eccezionale: un settantenne quasi cieco che si è fermato a
quarant’anni fa. Mentre il Bob Dylan o il Neil Young di adesso sono
artisti ben scafati segnati da quarant’anni di carriera artistica,
Rodriguez è segnato solo da anni di vita vera e la mancanza
d’uso ha conservato la sua voce e il suo canto così forti e
così fragili allo stesso tempo. Una storia fantastica, degna
dei migliori romanzi. Ma è tutta realtà e per questo
riempe il cuore di speranza. Come dice il
The Guardian: “Rodríguez, forse, non ha mai avuto veramente bisogno
dell’America, ma sembrerebbe che l’America abbia di certo bisogno
di lui. E come si suol dire, meglio tardi che mai”. Quasi a
ricordarci che le cose belle, prima o poi, vengono davvero
scoperte.
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