Il suono del vulcano è musica per le nostre orecchie

Ben Frost e Francesco Fabris raccontano il suono del vulcano Fagradalsfjall, registrato durante l’eruzione e diffuso con il progetto Vakning (Risveglio).

Ogni paesaggio sonoro naturale, scriveva R. Murray Schafer, possiede i propri suoni unici, originali, di riferimento. Il suono del vulcano, in particolare quello islandese, è simile a “un’ulcerazione pustolosa sulla pelle della terra, dai cui pori traboccano infernali effetti sonori”, i quali cambiano via via che ce ne si allontana.

Il suono del vulcano al suo risveglio

È ciò che hanno vissuto sulla propria pelle il maestro della nuova composizione elettronica Ben Frost, australiano trapiantato da quasi vent’anni a Reykjavík, e l’artista del suono Francesco Fabris, quando, durante l’eruzione del vulcano islandese Fagradalsfjall dopo otto secoli di silenzio, hanno effettuato field recording a distanza ravvicinata in diverse spedizioni. Le inedite registrazioni sul campo per il loro progetto musicale Vakning (Risveglio), diffuse per la prima volta in un concerto spazializzato all’Auditorium San Fedele di Milano lo scorso 7 novembre, saranno pubblicate su un album di prossima uscita per l’etichetta Room40.

Francesco Fabris in pieno field recording del vulcano islandese da distanza ravvicinata
Francesco Fabris registra il suono del vulcano © Francesco Fabris

Al bordo del cratere, i rumori sono come di tuono o di esplosione, nelle vicinanze del cratere si può sentire il terreno scuotersi. I fatali muri di lava, alti 2-3 metri, continuano ad avanzare, uccidendo ogni cosa sulla loro strada. Avanzano quasi in silenzio, ma non del tutto: se si ascolta con attenzione, si sentono gli schiocchi delicati e fragili della crosta – suoni secchi, come di vetro che si spezzi, su un’area di parecchie miglia. Quando la lava incontra della terra umida, emette anche un sibilo per certi versi soffocante. Tolto questo, tutto è silenzio.

Thorkell Sigurbjörnsson

Vakning nasce dalla consapevolezza che, diversamente da come percepito, questo pianeta sia tutt’altro che stabile. L’area che popoliamo e di cui solitamente ci occupiamo è una crosta sottile come la carta. Un modesto velo che ammanta una turbolenza sismica dinamica tanto potente quanto ignota. Quindi si verificano delle rotture. La pressione dall’interno si fa strada (attra)verso la superficie del pianeta, fornendo contemporaneamente distruzione e paesaggi vergini, rumori e suoni primordiali. Tali spaccature, registrate da Frost e Fabris, parlano della geologia vivente della Terra. Catturano gli istanti in cui la roccia liquida diventa solida, i momenti di trasformazione, di cancellazione e di creazione, spesso tutti insieme. È questo il suono del vulcano.

Attenzione all’ambiente

Ben Frost, residente in Islanda dal 2005, compone musica strumentale e sperimentale con influenze che vanno dal minimalismo classico al metal. Oltre al suo lavoro da solista, collabora spesso con altri musicisti, tra cui Nico Muhly, Valgeir Sigurðsson, Björk, Tim Hecker, Colin Stetson, Daníel Bjarnason e Swans. Autore di colonne sonore di serie tv di successo come Dark e 1899, Frost ha espresso più volte con la propria arte l’amore e il rispetto per l’ambiente. Di recente, ha sonorizzato il documentario Broken spectre di Richard Mosse sulla deforestazione e altri crimini ecologici in Amazzonia, mostrando gli effetti della catastrofe climatica in corso. Anche parte del lavoro di Francesco Fabris, già collaboratore di Frost da sei anni e in pianta stabile ai Greenhouse Studios di Reykjavík, gravita verso lo sfruttamento delle registrazioni di campo, il rumorismo e l’ecologia acustica.

Ben Frost e Francesco Fabris vicini alla lava
Ben Frost (a destra) e Francesco Fabris (a sinistra) si autoritraggono in prossimità del vulcano © Ben Frost e Francesco Fabris

L’eruzione del vulcano diventa una performance e un album

Incontriamo Ben Frost e Francesco Fabris il giorno che precede la performance dal vivo di Vakning. Un’esibizione pensata per “rappresentare e spazializzare le registrazioni vulcaniche, ma anche per attivare il materiale geologico raccolto e portato in scena sotto forma di frammenti solidi di lava, una manifestazione fisica della natura”, ci spiega Ben Frost. La diffusione delle sorgenti sonore è infatti corredata da una sorta di “installazione”, ideata da Frost e Fabris e realizzata qui con il contributo di Domiziano Maselli: una struttura di otto altoparlanti posizionati in modo circolare nella platea crea un’interazione diretta con il materiale lavico utilizzato in sala. Le vibrazioni degli speaker fanno spostare, scontrare e saltare i detriti vulcanici posti sopra. Qualche frammento cade, si originano piccole nubi di polvere. Il rumore delle pietre in movimento si espande grazie a microfoni e si mischia in tempo reale alle registrazioni. L’impatto sonoro ed emotivo dello show è impressionante: ci si sente totalmente immersi nel suono del vulcano d’Islanda, travolti dalla potenza della natura in un misto sensoriale tra fascinazione e inquietudine.

Come siete arrivati a questo progetto sul suono del vulcano?
Ben Frost: Io e Francesco ci conosciamo da diversi anni e siamo legati da interessi comuni come il field recording e il mondo della natura. Quando il vulcano Fagradalsfjall ha iniziato a eruttare a marzo 2021 c’erano scosse continue. Io mi recavo sul posto a registrare e lo stesso faceva Francesco. Stavamo lavorando sulla stessa cosa, giorno e notte, anche se con approcci diversi, per cui abbiamo deciso di unire il materiale raccolto separatamente per farne un unico album.
Francesco Fabris: Ben registrava a livello macro con un Nagra diretto a ogni fonte di suono e rumore, come il vento, gli allarmi antigas, le persone, i soccorritori, gli elicotteri. Io invece cercavo di evitare il caos e gli esseri umani, recandomi soprattutto di notte per essere isolato e concentrarmi sui micro dettagli dell’eruzione, sul raffreddamento della lava.
BF: Anche se in quel periodo non c’erano turisti in Islanda per via del lockdown, soprattutto i primi due giorni dell’eruzione sul posto accorrevano un sacco di persone, scienziati, geologi, curiosi.

Quanto avete impiegato a raccogliere il materiale registrato?
FF: Siamo andati diverse volte sul luogo, che dista circa 40 chilometri da Reykjavík, il primo giorno solo per capire la situazione e prepararci a registrare. Anche perché il vulcano continuava a cambiare aspetto, un altopiano con sette crateri all’inizio scoppiettante come un geyser poi effusivo. Ci siamo tornati questa estate, l’ultima registrazione è di settembre.
BF: Tramite amici abbiamo potuto avere accessi speciali. Essendo un vulcano a scudo e in pratica un’intera valle ad eruttare, l’aspetto interessante è che più passavano i giorni e meno ci potevamo avvicinare alla lava per via della barriera naturale che si creava intorno. E il paesaggio sonoro, di conseguenza, cambiava continuamente. Il primo giorno ci arrivavano addosso zampilli di lava, dopo due mesi serviva un binocolo per vederla. Alla fine, raccolto il materiale, ci siamo ritrovati un fine settimana in una casa di campagna e lo abbiamo ascoltato, selezionato e finalizzato per un album.

Francesco Fabris con maschera antigas sul vulcano
Francesco Fabris in tenuta tecnica e maschera antigas per registrare da vicino il suono del vulcano © Max Milligan

Come avete affrontato le spedizioni?
BF: Le prime due settimane dell’eruzione principale c’erano timori della comunità scientifica in merito al gas sprigionato. Le registrazioni di notte che menzionava Francesco erano ottimali dal punto di vista sonoro per l’assenza di rumori esterni e anche di vento, tuttavia senza vento il gas rimaneva a valle ed era molto complicato respirare. Perciò era necessaria un’attrezzatura adeguata, con maschera antigas, bombole di ossigeno e acqua. Non volevamo il vento per registrare al meglio, ma volevamo il vento per respirare. Ci siamo trovati spesso al limite, in bilico tra sicurezza e pericolo. Tra l’altro, per arrivare sul posto, bisognava lasciare il fuoristrada e percorrere un lungo e sfiancante tratto a piedi.
FF: Naturalmente avevamo sempre intorno una squadra di soccorsi, ma al tempo stesso cercavamo di registrare il più lontani possibile da loro, a seconda del livello di emergenza.

Che tipo di registratori avete utilizzato?
FF: Ho usato dei geofoni per catturare gli infrasuoni, strumenti con cui avevo registrato anche le scosse sismiche prima dell’eruzione. Così ho potuto vedere con chiarezza picchi, frequenze e magnitudo del vulcano. Con i microfoni posizionati nel suolo, alcuni più sensibili per cogliere i dettagli, ho registrato suoni che non potevo sentire ma appena percepire con il corpo.
BF: Io ho provato a catturare più le sensazioni che gli oggetti nella loro purezza. Negli anni i field recording sono diventati per me una sorta di gesto performativo per catturare un’esperienza. Il fatto di registrare su nastro a cassetta impone dei limiti fisici per cui so già che a un certo punto mi devo fermare e solo dopo mi posso rilassare. Questo influisce genuinamente sul mio modo di ascoltare e di registrare, che deve essere molto più attento rispetto a quando usi risorse digitali che ti offrono memoria illimitata.

La registrazione vissuta come performance è un concetto interessante
BF: La mia presenza nello spazio circostante diventa una sorta di atto meditativo alla John Cage. Quando schiaccio il tasto di registrazione quel che accade in un preciso momento diventa composizione, diventa performance, poi la tensione sparisce finché non trovo una nuova performance. Ciò che mi interessa è il modo in cui l’atto performativo dell’ascolto diventa a sua volta protagonista della registrazione. Anch’io, come Francesco, cercavo di allontanarmi dal caos, ma in alcune situazioni la confusione era inevitabile e allora perché non coglierla? Il vento che andava e veniva, geologi che urlavano all’improvviso, allarmi di misuratori di gas che scattavano, elicotteri sopra la testa. Nell’album di Vakning si potranno sentire due frangenti in cui la mia maschera era particolarmente rumorosa e cercavo di registrarla. Ma il mio respiro era ancora più rumoroso perché mi mancava l’aria per via della quantità di gas. Dovevo smettere di respirare o accettare la contingenza? Ho spostato il microfono sopra la mia testa e fatto diventare il mio respiro un altro elemento della registrazione.

C’è una ragione particolare per cui avete pensato di farne un album?
BF: Non so per Francesco, ma io la pandemia l’ho vissuta artisticamente davvero male. Ne ho odiato ogni istante. Conosco invece molti altri artisti che hanno fatto dell’isolamento, del maggior tempo a disposizione e della mancanza di distrazioni una fonte di pornografia creativa. Questo album per me rappresenta quindi una sorta di uscita da quella stasi creativa e, anzi, un momento fondamentale per performare in quanto artista, come dicevo prima. I miei spettacoli dal vivo sono molto fisici e questa esperienza è stata davvero assurda a livello sia fisico che emotivo. Mi ha dato una scossa.
FF: Sull’esperienza di questo progetto e il risultato finale condivido quanto detto da Ben, invece la pandemia l’ho affrontata esattamente all’opposto, con speranza e l’opportunità di vivere l’Islanda anche a contatto con la sua natura come mai avrei potuto in condizioni normali e col turismo. Sono andato alla ricerca di luoghi inesplorati dell’isola, ho fatto registrazioni e riscoperto me stesso.

Quanta manipolazione c’è nell’album rispetto al suono del vulcano originario?
BF: Quasi nulla, il disco suona piuttosto fedele.
FF: Abbiamo regolato solo tonalità e risonanze per far sentire meglio i suoni reali del vulcano, senza aggiungere sintetizzatori, elettronica o altro.

Ben, hai appena pubblicato l’album Broken spectre in tema field recording e ambiente, sull’Amazzonia. Non sei l’unico ad aver registrato lì, penso ad artisti come Francisco López o David Monacchi, ma sembra che tu abbia ormai imboccato questa direzione a livello musicale.
BF: Il field recording ha sempre fatto parte del mio lavoro, ma negli ultimi tempi ha assunto ancora più rilevanza. Anche perché c’è una sorta di supposta oggettività nella maniera in cui la musica viene registrata che per me può essere problematica, noiosa. Per il progetto Broken spectre ho trascorso tre anni sul campo, nella foresta pluviale in Brasile, con Richard Mosse. Anche se non posso certo paragonarmi a maestri come Francisco López, Chris Watson (fondatore dei Cabaret Voltaire, ndr) o lo stesso Lawrence English (titolare dell’etichetta Room40 su cui uscirà l’album Vakning, ndr), che hanno molta più esperienza e inoltre lo fanno con un approccio puro e disciplinato, quasi ortodosso. Io non ho un metodo scientifico, la mia è più una risposta emotiva a quello spazio. E poi sto ancora imparando. Nel mio suono ci sono distorsioni estreme, dovute talvolta a errori, che tuttavia restano parte dei miei colori e della mia estetica. Sono arrivato a un punto in cui la linea di confine tra musica e field recording è molto sfocata. Mi piace approcciare la registrazione musicale come se fosse una registrazione sul campo, l’idea di movimento attraverso lo spazio e la performance, reagire all’ambiente circostante, registrare in modo dinamico una band o un’orchestra, come se fossi un fotoreporter. Lavorare con Richard ha implicato tutto ciò, grande stress ambientale, molte parti in movimento, talvolta pericolo.

Broken spectre
Broken spectre in mostra alla galleria 180 The Strand di Londra © Richard Mosse

Che rapporto avete con la natura dell’Islanda?
FF: Vivere in un posto come l’Islanda a stretto contatto con la natura, dove a dieci minuti ti ritrovi nel nulla, per me è terapeutico. Non molto a livello faunistico, più paesaggistico. Sentire da vicino i quattro elementi, terra, aria, acqua, fuoco, è un antistress, mi dà pace e mi rende più curioso nello scoprire i dettagli delle cose, non solo della musica.
BF: In Islanda c’è un’enorme energia, una forza trainante che può essere positiva o negativa, può attrarre gente come me e Francesco o respingere chi ci nasce perché magari non ne sopporta il clima estremo, le giornate di luce perenne d’estate o di buio totale d’inverno. Non mi sorprenderei se tra cinquanta, cento o mille anni gli scienziati scoprissero il motivo per cui certe persone risuonano in determinati spazi, un legame che al momento è inspiegabile ma esiste.

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