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“Il teatro è stare insieme, è necessario. Se la nuova vita non lo comprende, no grazie”
“Sentiremo di colpo il bisogno di contatti umani veri e autentici e il teatro significa stare insieme, vivere un’esperienza”. Parliamo con Andrée Ruth Shammah, direttrice artistica del Franco Parenti di Milano, del silenzio che avvolge il mondo del teatro in questi mesi di emergenza.
È un settore lavorativo come un altro, eppure quando se ne parla lo si fa sempre in modo ideologico, di puro pensiero. Ma mai come in questi due mesi il teatro soffre, non per il virus in sè ma per il silenzio da cui è avvolto. Forse si dimentica che oltre a regalarci emozioni, cultura e immaginazione, garantisce lavoro a molte migliaia di persone. Sono stati i primi luoghi a chiudere i teatri (insieme ai cinema) e probabilmente saranno gli ultimi a riaprire. Il grido di allarme per la situazione è forte e ne abbiamo parlato con Andrée Ruth Shammah, regista e direttrice artistica del Teatro Franco Parenti di Milano che ha dedicato tutta la sua vita a diffondere questa forma d’arte, a renderla necessaria e non certo elitaria.
Andrée Ruth Shammah, ci sembra si discuta poco di cosa accadrà al mondo del teatro nel dopo coronavirus. Cosa ne pensa?
Non è che si discute poco, non si parla affatto del teatro, è come se fossimo dei fantasmi. Mentre siamo 150mila lavoratori che con diverse posizioni operano in ben 1.230 stabili teatrali in Italia. Il teatro non è radical chic, chiariamolo subito.
In questo momento di stop forzato alcune realtà si reinventano e cercano forme nuove, ma si può pensare al teatro senza un pubblico presente, senza fisicità?
Il teatro senza pubblico non esiste. È come un restauratore senza mobili, un vetraio senza vetro. Detto questo, ciò che dobbiamo fare ora è creare un contatto che oggi, per ovvi motivi, abbiamo perso. Questa è la funzione del teatro: creare un dialogo e un rapporto, “imparentarci” come vuole anche il nome del mio teatro. Noi al Franco Parenti e io in particolare, lo stiamo facendo grazie a #CasaParenti. Si tratta di 2 o 3 minuti, di pillole, in cui racconto quotidianamente di fatti e gente di teatro e lo faccio con calore, come è necessario fare in scena. Non si tratta di estetica ma di etica e, a mio parere, questi racconti, questi brevi dialoghi sono meglio del teatro in streaming o mal registrato che talvolta si vede in tv e consentono la concentrazione necessaria, senza disperdersi. Conto di continuare questo lavoro, questo contatto, anche grazie alla piscina (Bagni misteriosi) che mi auguro di riaprire e di poter sfruttare anche per delle incursioni attoriali.
Dal punto di vista economico al momento qual è l’urgenza maggiore?
Il paese non ha soldi, è chiaro, si sta indebitando per aiutarci e ci indebiteremo anche noi. Ora l’importante, dal mio punto di vista, è che se si hanno delle idee, delle proposte, si abbiano dei prestiti, della liquidità per realizzarle. Se per esempio intendo andare nelle piazze di Milano per fare degli spettacoli, presumibilmente dei monologhi, per la sicurezza di tutti, devo avere la possibilità economica di farlo. Ciò che non capisco invece, è quanto senso abbia intraprendere degli stravolgimenti dei teatri, anche strutturali se, come spero e come molti esperti dicono, il Covid-19 perderà la sua virulenza e torneremo a una quasi normalità. Noi faremo tutto ciò che sarà necessario per riaprire, lo vogliamo fortemente, ma non credo che tutta la vita staremo lontani gli uni dagli altri, a un metro e mezzo di distanza. Ho letto una frase che mi ha colpita e trovo pertinente: “Meglio evitare che una crisi seria si trasformi in un’opportunità sprecata”. La interpreto così: bisogna avere coraggio e andare oltre. Io lo so bene: eravamo in grosse difficoltà nel 2007 e 2008 ma abbiamo investito nei Bagni misteriosi, una scelta che si è rivelata forte e vincente. Ora bisogna fare lo stesso: investire e buttarsi, ma certo, occorre denaro per farlo.
Come si sta muovendo lei per il dopo?
Oggi i nostri lavoratori sono tutti in cassa integrazione che noi abbiamo anche deciso di integrare per diminuire il disagio. E non ho intenzione di lasciare disoccupati gli attori che dovevano lavorare per noi, quindi sto per esempio cercando di organizzare delle iniziative con i musei quando riapriranno, perché insieme si possa collaborare e creare dei momenti di racconto legati all’arte e alle opere esposte. È solo una delle tante idee. Per quel che mi riguarda, tento di stare ferma, di non sfinirmi per arrivare con l’energia e la freschezza necessarie per la ripartenza, questo sì. Non voglio che la situazione creata da questo virus mi sfibri.
Parla di nuove idee, di energia e forze che occorrono per ripartire, non trova invece che molti, a più livelli, siano in una totale stasi, che quasi si siano abituati a questa situazione?
Lo credo anch’io e penso sia la cosa peggiore. Ho passato tutta la vita a cercare di far andare il pubblico a teatro. Ricordo Paolo Grassi quando andava nella nebbia d’inverno in alcuni centri culturali o dopo lavoro a dire alla gente di andare a teatro. È stata una fatica, fino a quando è nato finalmente un teatro pubblico, inteso come nutrimento dell’anima – Paolo Grassi diceva che “il teatro è importante come una Centrale del latte”- che non fosse solo varietà ma una necessità. Per me è importante che la gente consideri il teatro come casa, che si senta a proprio agio. Ora sarà difficilissimo superare la paura dell’altro ma soprattutto la pigrizia. Non sopporto quando sento la gente in questi giorni dire di aver ripreso le proprie passioni, ma perché non lo facevano anche prima? Sembra che la vita che vivevamo non era nostra, che quella che vivevamo fosse di qualcun’altro. Ecco, cerchiamo di capire quale sia la nostra vita, ma che abbia al suo interno una varietà di proposte che comprendano anche il teatro. Se la nuova vita è quella che non comprende il teatro, che lo ritiene non necessario e vuole che la nuova via sia lo streaming, no grazie.
Occorre far capire che il teatro è essenziale come molte altre cose, quasi come fare la spesa, no?
Assolutamente, ma non perché è cultura, ma perché significa stare insieme, vivere un’esperienza, condividerla, parteciparla. Credo che tutta questa tecnologia sia assolutamente folle. Sento spesso dire che di colpo ci siamo digitalizzati ma penso invece che tutta questa tecnica abbia creato un tale fastidio che presto, mi auguro molto presto, sentiremo di colpo il bisogno di contatti umani veri, autentici. Che la tecnica vada altrove, in quei campi dove può servire a farci vivere meglio, però che non sostituisca altro.
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