
Ha dato il via ai concerti ad alta quota ben 28 anni fa distinguendosi sin dall’inizio per il rispetto delle terre alte. Sancito anche da un manifesto.
Il 15 maggio 2015 scompare B.B. King. Ezio Guaitamacchi ci regala un ricordo del re del blues.
L’aveva chiamata Lucille. Proprio come quella ragazza che nel 1949 scatenò una rissa in un locale di Twist, Arkansas dove l’allora 24enne Riley B. King stava suonando. Nel parapiglia tra i due spasimanti si era rovesciato un barile di benzina e il locale era andato a fuoco: King, sfidando le fiamme, aveva salvato la sua amatissima Gibson sei corde che da quel momento avrebbe cambiato il nome. Ma non il suono; un suono dolce ma saturo al tempo stesso, penetrante, intenso e seducente che ha finito per stregare legioni di chitarristi, Eric Clapton su tutti.
Il “Blues Boy” che a Memphis si dilettava a fare il dj e che proprio lì verrà conosciuto come B.B. non ha mai abbandonato la musica delle sue radici: quelle del delta del Mississippi, della regione che si snoda lungo la mitica Highway 61, la leggendaria “autostrada del blues”. E anche se, nel tempo, è stato impreziosito da spruzzatine di soul, jazz e funky, il blues di B.B. King non ha mai perduto lo spirito rurale, polveroso, sudaticcio ma estremamente sensuale dei juke-joint di Clarksdale, Tunica o Indianola, i luoghi della sua infanzia.
Nato a Itta Bena, in una piantagione di cotone, aveva ricevuto la sua prima chitarra dal grande Bukka White, cugino di sua madre. E, da quel momento, ha capito di essere nato per suonare “la musica del diavolo”. Dopo due ricoveri in ospedale, per gravi problemi di diabete, lo scorso primo maggio era tornato nella sua casa di Las Vegas. “Grazie a tutti per le belle parole e per gli auguri di pronta guarigione”, aveva scritto nel suo sito. Ieri, è morto nel sonno. Se n’è andato in silenzio, a pochi mesi dal suo 90esimo compleanno. Anche l’ultimo “brivido blues” ci ha lasciati.
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