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Cos’hanno in comune zen e funambolismo, secondo il funambolo da record Andrea Loreni
Per il Buddhismo zen “ogni passo è un luogo di pratica” e Andrea Loreni, unico funambolo in Italia specializzato in traversate a grandi altezze, molti passi ha scelto di compierli su un cavo di 14 millimetri. In una decina d’anni ha percorso chilometri, attraversando il vuoto e accogliendo la paura.
Nel 2011 ha camminato per 250 metri a 90 metri di altezza tra i colli di Pennabilli in Romagna, attraversando il cielo sopra il paese del poeta Tonino Guerra, e stabilendo il record nazionale. La sua impresa più recente è stata la traversata inclinata di Ponte San Giovanni a Perugia, che ha tenuto con gli occhi puntati migliaia di persone.
È della paura, delle difficoltà e dei ritiri di meditazione nel monastero di Sogen-ji a Okayama, in Giappone, che il funambolo Andrea Loreni parla nel suo libro Zen e funambolismo, dando anche alcune indicazioni su come prepararsi per affrontare il cavo e “gestire il disequilibrio”.
Per chi avesse voglia di provare un’esperienza simile, da gennaio Loreni sarà alla guida della squadra italiana di aspiranti funamboli che parteciperà all’evento Wires crossed a Galway, in Irlanda, capitale europea della cultura 2020. Quattrocento persone, provenienti da tutta Europa, attraverseranno il fiume Corrib sui cavi e in tutta sicurezza.
“Oltre alla spettacolarità, il funambolismo è un potente strumento di consapevolezza e di crescita interiore accessibile a tutti, capace di liberare da sovrastrutture e pesi inutili”, spiega l’artista. Il funambolismo e la pratica zen sono due facce della stessa, essenziale, medaglia: essere completamente immersi nel momento presente, nel “qui e ora”. Vedere il funambolo in azione è un’esperienza ultraterrena e l’abbiamo intervistato per capirne di più.
Perché hai scelto di diventare un funambolo?
Credo sia nato tutto dalla paura; in particolare dalla paura della morte. Da bambino, la prima volta che mi sono trovato di fronte al vuoto ho provato una forte attrazione e questo mi ha spaventato molto. Avevo il terrore di perdermi; la paura era reale perché non avevo ancora la struttura necessaria per affrontarlo. Da adulto ho lavorato in modo profondo sul radicamento e sulla crescita interiore e alla fine, dopo anni di pratica, il vuoto è diventata un’occasione per arrivare all’essenza, che per me significa vivere il momento presente con la massima consapevolezza e intensità. Tutti mi chiedono se ho paura: la risposta è sì, sul cavo ho sempre paura. La considero un elemento necessario per mantenere inalterata la concentrazione, ma attraverso la pratica zen ho imparato ad accoglierla con gentilezza e a lasciare che mi attraversi.
Ma perché rischiare la vita?
A volte uso delle protezioni, altre volte no e so bene che quello che faccio può essere considerato al limite. Credo però che raccontarci che se non saliremo su un cavo staremo al sicuro è una grande illusione. Il rischio fa parte della condizione umana e riconoscerlo aiuta a non sprecare tempo e a vivere pienamente ogni istante. Paradossalmente sul cavo abbracciare ogni istante è più facile perché non c’è spazio per le distrazioni. Al contrario, restare focalizzati quando si fa un lavoro alienante, che porta molto distante da ciò che vorremmo fare, è più complesso. L’unica cosa che abbiamo è il presente ed è solo su questo che possiamo fare la differenza. Ovviamente cerco sempre di ricordarlo prima a me stesso, perché l’errore è credere di avere sempre molto tempo davanti.
Nel cortometraggio The funambolist dream definisci il tuo lavoro “una strada dritta di 14 millimetri in cui non c’è nulla da scegliere, perché l’unica cosa da fare è arrivare dall’altra parte”. Nella vita invece come affronti le decisioni?
Cerco di sentire molto, di stare con quello che c’è senza aggiungere altro e di non irrigidirmi in schemi di pensiero. L’idea è di restare fluido per abbandonarmi. Ho imparato ad esempio a riconoscere le tensioni, che a volte arrivano da forzature esterne che ci disorientano. Se si è capaci di restare nel momento presente, si perde la sensazione di trovarsi di fonte ad un dilemma e si impara piuttosto a seguire il flusso, perché ogni istante ha già in sé una direzione.
Come ti prepari alla traversata?
Se non ci sono difficoltà tecniche particolari, seguo solo la mia normale pratica quotidiana. Mi sveglio alle 4:40, faccio un’ora di meditazione e un po’ di esercizio fisico e poi il resto della giornata passa regolarmente: accompagno la mia bimba all’asilo, sto con la mia famiglia e porto avanti i miei impegni seguendo le indicazioni dello zen. Faccio attenzione al respiro, ascolto il corpo, osservo le emozioni che sorgono e passano. Insomma, cerco di fare allenamento sul piccolo: con le arrabbiature sottili, i timori non eccessivi, per gestire meglio l’onda delle emozioni più forti e travolgenti. Ogni passo, quindi, è un luogo di pratica.
L’obiettivo del progetto internazionale Wires crossed 2020 è avvicinare le persone al funambolismo, soprattutto quelle che non hanno alcuna esperienza. Cosa si prova a camminare sul cavo?
I benefici sono immediati e non è necessario arrivare a fare lunghe traversate. È un’esperienza trasformativa e di benessere in cui i sensi si acutizzano; si sente e si vede tutto in maniera più vivida. A Bruxelles hanno avviato uno studio scientifico sul funzionamento del cervello durante la camminata, attraverso l’applicazione degli elettrodi. A parte questo, per affrontare il cavo è indispensabile alleggerirsi, mollare tutto quello che è da ostacolo, dai pensieri alle tensioni muscolari per capire, vivendolo, che il nostro essere fiorisce nell’assenza. Respirare e fare qualche passo, quando mai avresti pensato di riuscirci, è già una grande conquista. Il senso è di uscire dagli schemi e vedere che c’è sempre una possibilità, c’è sempre un’altra strada ed è a disposizione di tutti.
Qual è la traversata che ricordi in modo particolare?
Sono due: sicuramente quella di Pennabilli, che è stata tecnicamente molto complessa e ha richiesto una preparazione lunga e meticolosa, mia e del gruppo che mi ha affiancato. Ricordo che mentre camminavo tirava un vento incredibile ma alla fine, quando sono sceso, ho visto brillare i volti delle persone che mi erano state vicine. Una sensazione fortissima, ed è lì che ho capito che siamo esseri di luce. L’altra traversata fondamentale per il mio percorso personale è stata quella nel tempio di Sogen-ji in Giappone, di fronte al mio maestro Harada Roshi. Sentivo che era una cosa che dovevo fare, avevo chiesto il permesso e la risposta era stata: “Dozo”. Ovvero: “Prego, accomodati”.
Che reazione ha avuto il tuo maestro?
Era stupito come un bambino, rideva apertamente. Molto spesso i maestri buddhisti, come il Dalai Lama del resto, hanno uno spirito giocoso e si permettono di vivere le emozioni con autenticità e leggerezza.
Hai una bambina di cinque anni, lei cosa dice?
Semplicemente il papà esce perché va a lavorare. Anche i giorni prima dell’evento li viviamo in modo naturale, magari c’è più tensione, ma senza alcun dramma; questo anche grazie a mia moglie che capisce quello che faccio e perché lo faccio. Mia figlia viene a vedermi, ma se intorno c’è qualcosa che la attrae più di me che cammino nel vuoto non mi guarda nemmeno e quando scendo mi dice: “Hai visto che bravi i ballerini, papà?”. “Certo amore, sono bravi i ballerini”.
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