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L’industria del vetro italiana faro d’Europa per riciclo e impiego
Tassi di riciclo oltre il 70 per cento. Investimenti oltre gli 80 milioni l’anno volti ad efficienza e riduzione delle emissioni. 20 mila occupati.
La filiera del vetro uno dei settori trainanti l’economia italiana, anche per quanto riguarda gli investimenti in efficienza e sostenibilità. È quanto emerge dall’annuale rapporto realizzato da Ernst & Young sui maggiori mercati europei per conto di Feve, la Federazione europea dei produttori dei contenitori in vetro, e presentato da Assovetro, l’Associazione nazionale degli Industriali del vetro.
Un comparto industriale in salute che fornisce un contributo dal segno positivo in termini economici, sociali e ambientali. Risultati dovuti anche alle qualità intrinseche del vetro, un materiale “green” per natura. “Il vetro ci sarà anche quando non ci sarà più la plastica”, dichiara Franco Grisan, presidente della sezione produttori contenitori in vetro di Assovetro durante la presentazione della relazione. “Il vetro che stiamo riciclando oggi, sarà lo stesso che utilizzeranno i nostri nipoti”.
Numeri positivi quindi, che ci vedono tra i primi posti in Europa sia per quanto riguarda il riciclo, con un 71 per cento (la media si attesta intorno al 70), sia per quanto riguarda il recupero del rottame utilizzato in bottiglie e vasetti con un 59 per cento, rispetto ad una media del 52 a livello europeo. Una filiera ben distribuita sul territorio, quasi a “km 0”. “Possiamo considerarla una filiera locale, in quanto la provenienza e la fornitura delle materie prime avviene entro un raggio di 300 chilometri”, spiega Roberto Giacomelli, di Ernst & Young. Caratteristica dovuta anche al fatto che una bottiglia su due viene consegnata a clienti nelle vicinanze.
Ma sono gli investimenti in efficienza energetica a fare del vetro uno dei settori più green del comparto industriale italiano. Più di 89 milioni di euro utilizzato per migliorare e rinnovare gli impianti esistenti, forni compresi. “Un dato costante anche negli anni più legati alla crisi”, sottolinea Grisan. “E investimenti che non hanno portato alla riduzione di personale o alla diminuzione della produzione”. Un’industria che se da un lato crea lavoro, dall’altro riduce il proprio impatto ambientale.
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