
L’Italia vuole che un migrante dia una garanzia bancaria di 5mila euro per non finire in un Cpr in attesa dell’esame della domanda d’asilo. Ma la Commissione europea non è d’accordo.
Vengono dal Pakistan, dall’Afghanistan, dalla Siria, dal Marocco: sono i migranti della rotta balcanica, che dalla Bosnia provano a entrare in Europa.
La cosa della quale hanno più bisogno è che la loro storia sia raccontata, “che non venga ignorato quel che accade qui”; poi, naturalmente, anche tutto il resto, tutto ciò che di materiale serve per sopravvivere. C’è un fuoco leggero a scaldare la pentola per la cena, nell’ultimo piano dello squat affacciato sul fiume Una: un edificio pericolante a pochi passi dal centro di Bihać, cantone di Una-Sana, Bosnia-Ervegovina, pochi chilometri dal confine con la Croazia. Dal confine con l’Europa.
Tra Bihać e Velika Kladusa, nei pressi della frontiera, gravitano circa 8mila migranti, di cui circa la metà al di fuori dai centri gestiti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni. Chi non è registrato nei campi formali non può avere accesso ai servizi di prima accoglienza, alla già pressoché inesistente assistenza medico-sanitaria ed ai pasti. Oltre ai centri per famiglie di Sedra e Borici, i minori non accompagnati rappresentano il 40 per cento degli ospiti del centro di Bira, dedicato agli uomini adulti. La presenza di minori senza genitori rappresenta un fenomeno in continuo aumento, con una presa in carico parziale che espone i minori ad abusi e violenze.
#Bosnia Dicembre 2018, lungo la rotta balcanica #IOM https://t.co/I41FOvKeEi #bihac pic.twitter.com/Iwu3sJocGu
— Rotta balcanica (@rottabalcanica) December 10, 2018
Questo è solo uno dei tanti rifugi precari nei quali trovano riparo le migliaia di migranti fuoriusciti o mai entrati nel circuito formale dei campi gestiti dall’Oim. Giovani uomini e bambini che dormono nel calore della plastica bruciata, in un’aria irrespirabile che fa lacrimare gli occhi e bruciare la gola. Sono afgani, siriani, pakistani, bengalesi, marocchini.
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Qui manca tutto, il cibo è poco, le medicine scarseggiano, le condizioni igieniche sono pessime, gli indumenti usurati dal tempo. Eppure, ci accolgono nei loro giacigli, offrono il tè, con un bisogno spasmodico di raccontarsi, di testimoniare le angherie del viaggio, la miseria dei fallimenti e la violenza dei respingimenti: si chiama the game, il gioco a perdere, il gioco che non ha nulla di divertente, il tentativo disperato di oltrepassare i confini con la Croazia e raggiungere l’Europa dove esercitare il proprio diritto all’esistenza.
Tanti i frammenti di storie, destinati a non diventare quasi mai vere interviste perché troppo spesso queste persone non hanno voce. Eccone qualche eco: “Mi chiamo Hamid, vengo dal Pakistan, ho 15 anni e domani notte riproverò a varcare il confine: è il mio decimo tentativo. Le vedi queste ferite? Ne porto una per ogni fallimento”.
“Mi chiamo Mohamed, sono nato in Egitto, ho provato il game 5 volte e altrettante sono stato respinto. La polizia croata mi ha tolto tutto: soldi, scarpe, telefono, dignità”. E ancora: “Sono Ahmet, siriano. Sono bloccato qui da alcuni mesi. Mi hanno spezzato la caviglia e costretto a ridiscendere le montagne a piedi nudi. Aspetto di tornare a camminare. Aspetto il disgelo della primavera per ritentare la sorte”.
“Sono Abdel. Vengo dal Bangladesh. Al mio dodicesimo tentativo ero riuscito ad arrivare a pochi km da Trieste, ma sono stato catturato e riconsegnato alla polizia croata. Mi hanno preso tutto: soldi e anima. La mia famiglia non mi invia più denaro: non mi crede più; non crede a quello che avviene qui. Pensa che io stia mentendo”. E infine: “Mi chiamo Kalam. Ho 20 anni. Vengo dal Marocco e vorrei raggiungere mio fratello in Francia, ma a ogni tentativo vengo respinto. La notte ci sono i rastrellamenti della polizia bosniaca: ci dicono che dobbiamo andare al campo, ma al campo ci dicono che non c’è posto e di tornare qui”.
A gennaio un gruppo di attivisti ed attiviste di Baobab Experience si è recato in missione umanitaria in Bosnia Erzegovina. L’iniziativa ha consentito di costruire una rete interna con gli attivisti locali, impegnati sul territorio nel dare supporto e conforto ai migranti bloccati nel limbo giuridico bosniaco. Grazie a un finanziamento di Help Refugees, sono stati effettuati acquisti di beni di prima di necessità, per dare ossigeno ai free shop e ai magazzini dei volontari locali di Bihac, Tuzla e Sarajevo che individualmente o in piccoli gruppi prestano aiuto ai migranti, spesso in condizioni di sistematica intimidazione e di crescente repressione. Un modo per gettare le basi per un progetto di lungo respiro, che mira a superare l’approccio solidale esterno, sporadico e assistenzialista.
No one should have to live in a place like this. But while governments turn their back on these people, we are so grateful for these volunteers for stepping up to help. #chooselove (3/3) pic.twitter.com/D7qS8hFF5O — Choose Love / Help Refugees (@chooselove) January 13, 2020
Qui più che altrove, infatti, “sembra fondamentale sia costruire e fare rete con piccole associazioni ‘grass roots’ e con singoli solidali che quotidianamente e in prima persona si dedicano al supporto dei migranti, sia la narrazione e la denuncia dei continui soprusi delle polizia croata. Il tentativo è quello di dare voce a chi non ne ha – spiega Andrea Costa, coordinatore di Baobab Experience – A Bihać e Tuzla, proprio come a Ventimiglia, Ceuta o Roma, ci sono pezzi importanti di cittadinanza che si organizzano per colmare il vuoto nel campo dell’accoglienza e per denunciare abusi e legislazioni inadatte ed inutilmente crudeli, come resistenza ma anche spinta decisiva a un sempre più urgente cambiamento delle politiche migratorie europee nella loro stessa impalcatura ideologica”.
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