Cooperazione internazionale

Dalla Bosnia a Trieste, il viaggio dei migranti sulla nuova rotta balcanica

Viaggiando sulla nuova rotta dei migranti che attraversano i Balcani per raggiungere Trieste, un reportage che documenta i cambiamenti sociali, economici e politici dei paesi attraversati.

Spira il vento a Trieste, come nei migliori cliché. “Domani sarà bel tempo”, dice Paola, triestina, da 15 anni in Bosnia ed Erzegovina. Accanto alla stazione dei treni, l’imponente porto asburgico. Alcuni locali sono stati ristrutturati, come il magazzino 26, aggiungendosi al polo museale, mentre altri sono lasciati all’incuria del tempo. All’interno dell’edificio più vicino ai binari di arrivo e partenza, un silos, qualche migrante trova riparo dal freddo e dal vento. “Cosa volete? Volete un’intervista? Volete uno scoop?”, il ragazzo afgano, ventenne al massimo, non è felice dell’intromissione di estranei, giornalisti, nell’area. Quattro baracche, costruite con materiali di scarto, nascoste dagli sguardi dei passanti, Trieste è una tappa del grande viaggio. Una “sala d’aspetto” prima di ripartire verso la Germania, la Francia, il Nordeuropa e altre città italiane.

La (ri)partenza da Bihac e Velika Kladusa

Tredici giorni a piedi, seguendo le tracce dei migranti, e 180 chilometri più a sud il vento è sparito, la lingua è il serbo-croato, la nazione è la Bosnia. Bihac e Velika Kladusa, le due città di sosta dei migranti, guardano la frontiera con la Croazia da sudest. Le fitte foreste circondano le periferie e in poche ore si è già dall’altra parte del confine. “Voglio andare in Spagna, voglio fare l’infermiere”, “Germania, sì, proprio in Germania, posso fare molti lavori”, “A Brescia, ho amici, poi si vedrà”: vengono da Pakistan e Afghanistan, hanno attraversato l’Iran, la Turchia, la Grecia, la Macedonia, la Serbia e hanno raggiunto l’ex dormitorio dello studente di Bihac, il campo base, prima di ripartire.

Il rigido inverno balcanico si avvicina. Ogni giorno spedizioni di migranti partono verso i boschi. Da inizio anno poco più di 13mila persone hanno scelto la Bosnia come luogo di passaggio sulla rotta verso occidente. I numeri sono ufficiali, dati forniti dall’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), ma in quanto luogo di traffico sulle cifre regna un caos calmo. “Noi contiamo un 15 per cento in più rispetto alle registrazioni”: Peter van der Auweraert, coordinatore Oim per i Balcani dell’ovest, conferma la difficoltà di capire l’effettiva entità del fenomeno.

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I migranti attraversano l’Iran, la Turchia, la Grecia, la Macedonia, la Serbia e raggiungono l’ex dormitorio dello studente di Bihac, il campo base, prima di ripartire © Michele Cirillo

Il rapporto fra migranti e popolazione locale

Dei tre confini da attraversare, il più semplice è quello tra Bosnia e Croazia: centinaia di chilometri di boschi. È l’ex linea del fronte della guerra bosniaca. “Passano di qua, li sento parlare. Anche serbo-croato. Dicono: ‘là c’è la polizia, non si può passare di là’”: Amir, 70 anni di Bihac, suggerisce che i migranti siano aiutati da locali per muoversi sulle piste verso il confine. “Da vent’anni sono in pensione, mia moglie da dieci. Con i soldi ci siamo costruiti una bella casa vicina alla foresta”, continua Amir. “Ho trovato diverse volte la porta forzata e grossi danni all’interno. Io dico: se avete bisogno di acqua, cibo e un letto, siete i benvenuti, ma se fate così io non so come potrei reagire”. Le armi in mano ai civili bosniaci sono una realtà. Un sedimento della guerra. Secondo uno studio di Small arms survey, pubblicato il 18 giugno di quest’anno, nel paese balcanico ci sono 31 armi da fuoco ogni 100 abitanti. “Ho difeso per quattro anni casa mia e adesso mi succede di nuovo in tempo di pace, non so, io ho investito dei soldi qua, difenderò le mie cose”, conclude Amir.

Nelle parole e negli atteggiamenti con cui i locali parlano dei migranti c’è una contraddizione latente. Appena sotto la superficie dell’evidente, resiste la memoria delle fughe e dell’essere stati anch’essi considerati dei “profughi”. Se da una parte quindi la rabbia per dei singoli atteggiamenti distruttivi mina la coabitazione, dall’altra l’immedesimazione è il collante che evita il conflitto.

Superate le mine che infestano il confine e il pericolo di essere attaccati da animali, si entra in Croazia, forse il pezzo più pericoloso del percorso. Le storie delle violenze da parte della polizia di confine sono un ricordo per alcuni, già rodati, un fantasma per altri, ai primi tentativi. Evitare Karlovac e gli altri centri abitati, seguire piste nascoste, oppure cambiarsi d’abito per mimetizzarsi e prendere i pullman che si avvicinano alla Slovenia. Anche i locali possono essere un problema: “Appena ci vedono chiamano la polizia e in cinque, massimo dieci minuti, arriva arrestandoci”, la testimonianza di Hassan, 20 anni, del Pakistan. Se hai fortuna passi per un turista.

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Superate le mine che infestano il confine, si entra in Croazia, forse il pezzo più pericoloso del percorso © Michele Cirillo

La barriera sul fiume Kolpa, al confine tra Croazia e Slovenia

La Kolpa è il confine naturale tra Croazia e Slovenia. Un panorama mozzafiato: colline verdi smeraldo si gettano in acqua, mentre gruppi di stranieri si preparano al rafting. Nel 2015 il governo di Lubiana ha cominciato ad erigere una barriera sul fiume. Filo spinato, reti, cancelli e lucchetti per fermare l’afflusso di migranti nel paese. A Brod na Kupi c’è uno dei tanti passaggi di frontiera: il ponte, la dogana, due uffici e si entra nell’area Schengen. “Non siamo stati noi, dovete chiedere a loro”, il poliziotto croato indica il collega sloveno a pochi metri di distanza. “Non abbiamo nulla da dire sui migranti che passano, dovete chiedere ai nostri superiori a Lubiana”, fa eco l’ufficiale sloveno.

La Kolpa accompagna il tragitto verso Est. La barriera, sempre presente, si interpone tra la strada e il corso d’acqua. “Il fiume è pericoloso se non lo conosci. Alcuni migranti sono morti provando ad attraversarlo”, continua Paola. La Kolpa è placida, ma il freddo e la corrente, soprattutto durante i giorni di pioggia, sono pericoli concreti: “Sì, ho visto migranti attraversare il fiume, li abbiamo aiutati. So che più a nord sono morti anche dei bambini”, le parole di un cameriere di un ristorante sulla strada.

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Il fiume Kolpa accompagna il tragitto verso est. La barriera, sempre presente, si interpone tra la strada e il corso d’acqua © Michele Cirillo

Un muro che “fa male al cuore”

Ljuba abita con il marito a Fara na Kupi, paesino sulle rive della Kolpa. La coppia gestisce un bed and breakfast immerso nel verde. “Mi fa male al cuore vedere questa recinzione”, le parole delle donna mentre mostra i punti di accesso al corso d’acqua bloccati con un lucchetto, “qualche mese fa sono arrivati i bulldozer e l’hanno innalzata. Hanno cambiato le nostre vite e la nostra relazione con il fiume senza chiederci niente”. C’è rabbia e frustrazione nelle parole di Ljuba. Con la bellezza del luogo e la purezza delle acque della Kolpa, Ljuba ci vive. “Hanno avuto il solo merito di imprigionarci. Non hanno impedito ai migranti di passare, ma hanno chiuso ai locali e ai turisti, con cui lavoriamo, la possibilità di accedervi”, conclude Ljuba, amareggiata. “Noi riteniamo il governo responsabile”: Valentin, il marito di Ljuba è stato anche sindaco di Kostel. “Sono nato qua, cosa può significare per me questa barriera? Va a minare, dividere le relazioni tra persone e intaccare i rapporti con l’altra sponda del fiume”, conclude l’uomo.

L’arrivo a Trieste

Due ore di macchina e 150 chilometri più ad ovest, arroccata sull’omonimo golfo, c’è Capodistria. La città portuale è un altro dei punti di accesso dei migranti in Italia. “Certo che ho accompagnato migranti in Italia e cosa dovrei fare? Chiedere il documento? Non sono mica un poliziotto”, il tassista guida in direzione Trieste, mentre racconta la sua esperienza. “Sono clienti, mi chiedono di andare a Trieste, come voi, cosa faccio? Rifiuto?”. Venti minuti di macchina e si intravede la stupenda piazza dell’Unità di Trieste, è già Italia. Da inizio estate il ministero dell’Interno ha intensificato i controlli ai valichi di frontiera, utilizzando anche reparti di polizia provenienti da Padova e tecnologie moderne per l’identificazione delle targhe. “Come vedete due dei tre valichi che abbiamo visto sono totalmente sguarniti – conclude Paola mentre torna verso il centro di Trieste – e anche se si volessero controllare tutte le strade che accedono in Italia, il confine terrestre è ingestibile: troppi chilometri e troppi boschi”.

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“Abituarci alle urla che provengono dall’altra parte del confine sarebbe una specie di morte culturale, civica e umana” © Michele Cirillo

Il racconto di Laura e Michele, che aiutano i migranti in difficoltà

In un quartiere residenziale di Trieste, al primo piano vivono Laura e Michele. Nelle scorse settimane hanno deciso di aiutare due gruppi di iraniani in difficoltà durante l’attraversamento dalla Bosnia all’Italia. “Non occuparci di questa realtà fondamentale sarebbe come voltare gli occhi dall’altra parte”, le parole di Michele, che continua: “Abituarci alle urla che provengono dall’altra parte del confine sarebbe una specie di morte culturale, civica e umana”. La coppia triestina precisa che nelle scorse settimane hanno aiutato solo persone che conoscevano. “Sembra cinico, ma con alcuni c’erano dei rapporti personali, e quando un conoscente ti chiede una mano non ti nascondi”, conclude Laura.

Nel salotto dell’appartamento, tra la libreria e le foto incorniciate, siede Reza. “Al tredicesimo giorno di viaggio avevo paura. La pioggia mi aveva impregnato tutti i vestiti. Senza l’aiuto di Laura e Michele non sarei mai riuscito ad arrivare in Italia”. Adesso Reza è in Germania, sua destinazione fin dall’inizio. “Mi hanno respinto 16 volte, in Croazia e Slovenia, mi hanno picchiato, ma come vedi adesso sono qua, dove volevo essere”, conclude Reza in chat.

Quale futuro aspettarsi

Il 17 settembre a Sochi, Il presidente russo Vladimir Putin e la controparte turca Recep Tayyip Erdogan hanno trovato un accordo per l’istituzione di una zona demilitarizzata sul cantone di Idlib, scongiurando almeno per il momento un’offensiva che avrebbe potuto portare a una nuova emergenza umanitaria e ad un nuovo flusso di rifugiati verso la Turchia e l’Europa. Se il 2018 è stato per la Bosnia l’anno zero della “nuova” rotta, eventuali sconvolgimenti geopolitici nel prossimo futuro – in Siria ma non solo – aprirebbero a un fenomeno oggettivamente impossibile da bloccare. Alla prova dei fatti, nonostante la deterrenza di espulsioni e violenze, ancora non confermate ufficialmente, i confini si sono dimostrati porosi e facilmente penetrabili. In gioco, nel 2019, ci sarà la stabilità della Bosnia, paese che si regge su fragili basi, ma più in generale sotto la lente finiranno l’Unione europea e la sua capacità di mettere in sicurezza i confini, argomento politico predominante nei tre paesi interessati dalla nuova rotta: Croazia, Slovenia e Italia.

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