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La puntata di Venticinque dedicata al 2002 ha Bugo come protagonista e racconta ricordi e sensazioni del suo passato, svelando la sua crescita artistica.
La pasta al burro cucinata sul palco, l’adesivo appiccicato sulla fronte ai boss della Universal, la voglia di rompere i coglioni. Cristian Bugatti era così nel 2002 ed è ancora così. In mezzo l’India, Sanremo, i fan e tanta voglia di raccontarsi nel nostro podcast.
“Noi volevamo fare casino. La gente quando veniva al concerto di Bugo doveva dire ‘Che casino!’”. Dal 2002 il mondo è cambiato, e la musica in Italia ancora di più. Cristian Bugatti da Cerano, invece, è rimasto esattamente quella cosa lì. Un punk col ciuffo, una rockstar della provincia di Novara. Di più, un alieno precipitato sulla discografia di casa nostra per dire a tutti: “Hey, ragazzi si può fare anche così”. Certo, ora non cucina più la pasta al burro durante i live, e rompe meno cose (anche perché costano di più) sul palco. Ma l’approccio è lo stesso, spiazzante e inconfondibile. “Sono veramente gasato, quando ho questo brivido qui addosso mentre registro per me è già un successo”, racconta Bugo all’inizio del nuovo episodio di Venticinque. Il podcast di LifeGate Radio e Rockit – scritto da Dario Falcini, Giacomo De Poli e Marco Rip – ha passato una giornata con lui a Brescia, nello studio in cui sta registrando il suo nuovo disco, l’undicesimo di una carriera in cui è successo di tutto.
Mentre ci apre le tracce sul pc e ci suona qualche pezzo di una discografia di culto totale, Bugo svuota il baule dei ricordi. Torna agli esordi, al paese. A quando la musica non è era ancora il filo rosso di tutta la sua esistenza. “C’erano degli amici del paese che avevano una band, tra loro Cristian Dondi che sarebbe poi diventato il mio batterista (e di recente suo compagno di viaggio a Pechino Express, ndr). Ai tempi io non ero neanche troppo interessato alla musica, ero più in fissa con lo sport. Ma quando ho conosciuto loro ho capito che quella vita era una figata: il cazzeggio, le birrette, i volumi alti. Presto è diventata la cosa che mi faceva stare bene, la mia missione”.
Dopo aver imparato a suonare la chitarra a militare – “io mi cimentavo con la batteria, ma il capitano non me la faceva portare in caserma perché occupava troppo spazio” – ha fatto tutta la gavetta possibile. “Avevamo una band che cambiava nome a ogni concerto”, racconta Bugo nel corso del lungo flusso di ricordi che compone Venticinque. “Tanto non ci conosceva nessuno. Una volta eravamo i Crackers, un’altra volta Budella Party o Bugo Porno Show”.
Il suo primo concerto come Bugo fu nel marzo 1998 a Vigevano, nel pavese. Da quel live, racconta durante l’audiodocumentario, il suo nome sarebbe arrivato a Bruno Dorella che con la sua Bar La Muerte è stato il primo a credere in lui e metterlo sotto contratto. “Lo ascoltai a una jam e mi resi conto che aveva un talento fuori dal comune. Produssi i suoi primi due album, prima che passasse alla major”, ci spiega Bruno. Da lì in poi è successo di tutto. Gli anni in India, il piccolo gruppo di fan che cresceva giorno dopo giorno assieme alle sue canzoni sgangherate e sognanti. Nel 2002, l’anno attorno a cui ruota questo episodio, il passaggio in major, alla Universal. Aveva 27 anni: “Il mio club dei 27 funziona al contrario dei grandi: loro muoiono, io inizio la carriera”, scherza. “Ascoltai Casalingo e mi scioccò, perché aveva una gran top line ed era bella rumorosa. Poi sentii Fai la fila, che era quasi industrial. E pensai: ‘questo è Battisti dopo una partita di funghi allucinogeni’”, ride, intervistato, Claudio Klaus Bonoldi, che per l’etichetta ha scovato centinaia di talenti negli anni e anche Bugo.
Venticinque raggiunge poi Enrico Silvestrin, che a Supersonic su Mtv fu il primo a mandare l’alieno in tv. “Lo avevo scoperto online, sui forum. Ne parlavano pochi, ma quei pochi ne parlavano bene. Come un nuovo Beck, un artista dissacrante di cui avevamo bisogno”. La lunga chiacchierata con Cristian, intervallata da reperti audio dell’epoca, arriva poi al Festival di Sanremo 2020, pochi giorni prima della pandemia, quando il successo fragoroso gli piovve addosso nel modo più inaspettato. E doloroso. “È stato cambiato un testo sul palco più importante d’Italia, una cosa che mi ha toccato nel vivo: è come sfregiare l’opera di un altro. C’è chi pensa che mi sia andata bene, ma quella cosa ha creato in me uno stress enorme, è stato un centrifugato che ti macina”.
Della popolarità, però, c’è una cosa che gli piace tantissimo. “Amo parlare con la gente. Mi dà carica”. Congediamo Bugo, felici di aver raccontato assieme al protagonista una parabola artistica insolita e che ha significato davvero qualcosa. Per tante o poche persone, non ha importanza. Di certo non per Bugo, l’alieno punk di Cerano, Novara. “La mia missione nella vita è raccontare le mie emozioni alla gente. È qualcosa che va oltre il lavoro: ci penso sempre, anche quando sogno. Finché avrò qualcosa da dire con la musica lo farò, lo sapevo nel 2002 e lo so oggi”.
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