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Giuseppe Colombero afferma che: “Alle emozioni ci si accosta sempre con rispetto, pulendosi le scarpe e in punta di piedi”
Le emozioni, pur nel complesso intreccio di elementi cognitivi e fisiologici, sono stati dell’anima, subitanei fin che vogliamo rispetto ai sentimenti, ma sempre espressivi della nostra interiorità e che, come tali, collimano con la vita stessa, ci accompagnano fin dal nostro primo stare al mondo. Le emozioni si configurano, dunque, come stati affettivi intensi, fondamentalmente transitori, ma specchio fedele della nostra parte più intima e, quindi, più fragile, vulnerabile. Esse emergono dal nostro” viscere più nobile”, il cuore, del quale i segni somatici (il pianto, il riso, il pallore del volto o il rossore…) sono eloquenti ma parziali traduzioni esterne di un “dentro” nascosto, segreto, appunto intimo: stiamo parlando dell’ “essenziale” della persona di fronte al quale dobbiamo accostarci con pudore, reverenza; insomma, con un cuore straordinariamente leggero. Il cuore diventa, allora, veramente il centro spirituale della persona, l’organo da cui germinano le dinamiche relazionali più genuine, l’espressione più alta di una comprensione umana integrale perché rispettosa, pudica nell’accostarsi agli altri mondi interiori, consapevole che lo spazio emotivo è distanza da accorciare con delicatezza e non da anare.
Giuseppe Colombero, con indubbia finezza psicologica, afferma che: “Alle emozioni ci si accosta sempre con rispetto, pulendosi le scarpe e in punta di piedi; esse rivelano come e quanto la persona sente ciò che narra e che cosa questo significa per lei. Sono le emozioni che permettono di comprendere l’esatto valore che il fatto descritto riveste per colui che lo descrive; esse rivelano in definitiva ciò che per la persona conta e ciò che non conta, ciò che la fa godere e ciò che la fa soffrire, i valori e i non valori che essa assegna alla sua vita”.
Se le emozioni germinano dal cuore, dalla sua parte più segreta e se il termine segreto significa originariamente “cosa separata”, quindi nascosta, preziosa, il pudore si configura, allora, come vero luogo dell’ascolto del mondo emozionale dell’altro.
Pudore, infatti, è parola eticamente “sacrale”, che rinvia ad una sospensione della parola di fronte all’emozione dell’altro, a un rispetto temporale, a una dilazione del nostro intervento, sia pure per consolare o per gioire insieme con sincerità; sovente, infatti, il nostro intervento è precipitoso, maldestro, rischia di affogare lo stato emotivo dell’altro nella nostra stessa ansia di compartecipazione, senza frapporre la “distanza giusta”.
Ecco cosa dice ancora Colombero: “L’empatia è proprio la capacità di “sentire con” ponendosi alla “distanza giusta”: la distanza giusta è quella di chi compartecipa senza lasciarsi ingorgare e sommergere dalla emotività altrui, con il risultato di affondare entrambi”.
È qui che entra in gioco l’attenzione, intesa come impercettibile movimento del cuore che sa arrestarsi con pudore di fronte alle terre segrete, intime delle emozioni dell’altro; come dice Simone Weil l’attenzione è “uno sforzo negativo”, un trattenerci con rispetto, letteralmente “un guardare indietro”, un riguardare l’emozione che mi è comunicata stando in semplice ascolto delle sue vibrazioni più segrete, senza pretendere di esaurirla con la mia comprensione concettuale o emozionale.
Pudore e attenzione divengono, allora, i luoghi autentici dove le diverse emozioni e i diversi sentimenti possono solo sfiorarsi, rispettando, quasi con una tensione mistica, quelle zone del “non detto” che l’anima vuole custodire nel suo fondo per conservarne intatta la purezza e l’irriducibilità.
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