La Cop28 è finita, ma bisogna essere consapevoli del fatto che il vero test risiede altrove. Dalla disinformazione al ruolo delle città, ciò che conta avviene lontano dai riflettori.
L’Arabia Saudita ridurrà le emissioni di CO2. Ma puntando sul petrolio
La monarchia araba ha annunciato un calo delle emissioni di gas ad effetto serra. A patto però che i profitti dalle esportazioni di petrolio restino alti…
A tre settimane dall’avvio della Conferenza mondiale sul Clima (Cop 21) di Parigi, anche l’Arabia Saudita ha annunciato i propri impegni in tema di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Il 10 novembre, Riyad ha fatto sapere di voler “evitare” di disperdere nell’atmosfera, entro il 2030, “fino a 130 milioni di tonnellate equivalenti di CO2”. Si tratta di una buona notizia, certamente, ma soprattutto sul piano simbolico.
È importante registrare, infatti, che una nazione che ha fondato la propria ricchezza sull’estrazione di petrolio abbia dichiarato di voler contribuire ufficialmente alla lotta ai cambiamenti climatici. A Riyad, d’altra parte, devono aver temuto un isolamento diplomatico in materia ambientale, visto che 157 nazioni (su 195) hanno già annunciato i loro impegni in vista della Cop 21 (l’Arabia Saudita era l’unico tra gli appartenenti al G20 a non essersi ancora pronunciato). In termini, invece, di “peso ecologico”, la decisione saudita appare importante ma non particolarmente decisiva.
Innanzitutto, perché il paese risulta responsabile solo dell‘1,2 per cento delle emissioni globali di gas ad effetto serra (stesso livello dell’Italia, secondo i dati pubblicati nel 2014 dal World Resources Institute). Ma soprattutto perché gli impegni assunti appaiono piuttosto opachi: il documento pubblicato, infatti, risulta difficile da valutare dal momento che non precisa se quella ipotizzata sarà una vera riduzione delle emissioni, cioè un calo rispetto ad un punto di riferimento dato (ad esempio, un determinato anno). Scorrendo il testo, si può immaginare che l’idea sia semplicemente quella di emettere, nel 2030, meno CO2 rispetto a quella che sarebbe stata dispersa senza misure correttive (lo scenario cosiddetto “business as usual”). Ma si tratta, di fatto, di un’interpretazione. Ciò che appare un vero paradosso, poi, è il fatto che l’Arabia Saudita abbia condizionato il raggiungimento dell’obiettivo di riduzione al mantenimento di “un’economia che continui a diversificarsi e a crescere”, e soprattutto a “forti profitti derivanti dalle esportazioni di petrolio”.
“Il paese – ha spiegato Célia Gautier, della ong Climate Action Network, secondo quanto riportato dall’agenzia Afp – comincia a comprendere che la transizione mondiale verso le energie rinnovabili è ineluttabile. Ma resta difficile affermare che accetterà un’accelerazione di tale processo, tale da portare all’abbandono dei combustibili fossili (petrolio, gas e carbone) entro la metà del secolo”. Eppure, in realtà, si tratterebbe di una scelta puramente strategica, dal momento che il potenziale dell’Arabia Saudita in termini di sfruttamento delle fonti rinnovabili è innegabilmente gigantesco.
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