“Le imprese sanno come andare verso investimenti green, ma hanno bisogno di politiche chiare”, spiega Irene Priolo, presidente dell’Emilia-Romagna.
Gamberi e gamberetti, il cocktail è di disastri ambientali e schiavitù
Negli ultimi anni il consumo di gamberi e scampi continua a crescere. Questi poveri crostacei hanno conquistato quote di mercato sempre maggiori e sono tra i prodotti della pesca più richiesti, tanto da rappresentare da soli un quinto del mercato ittico internazionale. A quale prezzo ecologico? Secondo gli ultimi dati elaborati dalla Fao, i gamberi e i gamberetti hanno quote
Negli ultimi anni il consumo di gamberi e scampi continua a crescere. Questi poveri crostacei hanno conquistato quote di mercato sempre maggiori e sono tra i prodotti della pesca più richiesti, tanto da rappresentare da soli un quinto del mercato ittico internazionale. A quale prezzo ecologico?
Secondo gli ultimi dati elaborati dalla Fao, i gamberi e i gamberetti hanno quote produttive che raggiungono i 3,4 milioni di tonnellate per anno. Principalmente provenienti da Cina, Tailandia, Indonesia, India, Vietnam, Brasile, Ecuador e Bangladesh.
Quasi sempre però, che siano da allevamento o selvaggi, interi o sgusciati, la sostanza è sempre la stessa: in fatto di gamberi e scampi è praticamente impossibile compiere una scelta etica o anche solo lontanamente sostenibile. Le maggiori aziende attive nel settore stanno solo ora compiendo i primi passi sulla strada della responsabilità sociale, ma spesso li disattendono subito dopo. Dietro questi piccoli crostacei si celano violazioni dei diritti umani, schiavismo e disastri ambientali difficili da riparare.
La produzione di gamberi è triplicata nell’ultimo decennio
Ormai quasi metà del pesce consumato nel mondo non è più pescato in mare aperto, ma proviene da allevamenti di acquacoltura.
Nel 1980 solo il 9 per cento del pesce veniva allevato. In particolare la situazione di gamberi e gamberetti, che siano di allevamento o selvaggi, interi o sgusciati, è diventata un elemento di preoccupante impatto ambientale, visti i danni che sta infliggendo a livello di ecosistemi e sulle popolazioni locali.
La produzione mondiale di gamberi è triplicata nell’ultimo decennio, da 750mila tonnellate annue negli anni Novanta a 3 milioni e mezzo di tonnellate annue negli ultimi cinque anni. Noi italiani sembriamo esserne particolarmente ghiotti, visto che il nostro Paese risulta essere il terzo importatore d’Europa. Li importiamo da Cina, Tailandia, Indonesia, India, Vietnam, Brasile, Ecuador e Bangladesh. Tutti Paesi dove le attenzioni sanitarie, come quelle sindacali, sono al lumicino. E già questo, è una spia.
La pesca di crostacei selvaggi è fatta con reti a strascico da fondo il che causa strage di qualsiasi forma di vita marina, compresa quelle in via di estinzione, ma i disastri che stanno provocando gli allevamentiti sparsi nel mondo, soprattutto in aree molto povere, è a un livello di guardia.
I problemi non sono nuovi ed erano stati già segnalati da Unimondo – Gamberi e scampi = violazioni dei diritti umani, schiavismo e disastri ambientali – da Slow Food, da The Guardian, dal Fatto Quotidiano e ancor prima, nel 2013, da Altroconsumo, nell’inchiesta ‘Gamberi, non vi mangiamo più’:
Se i gamberetti selvaggi subiscono una pesca intensiva con reti a strascico che fanno strage di qualsiasi forma di vita marina (comprese le specie in via d’estinzione), gli allevamenti di gamberi sono altrettanto nocivi perché causano la distruzione di interi ecosistemi legati alle foreste di mangrovie, che vengono annientate per far spazio ai bacini artificiali per l’acquacoltura.
“La diffusione dell’acquacoltura di gamberetti – rincara la dose Slow Food – mette a rischio la sicurezza alimentare e la cultura di milioni di esseri umani, distruggendo le loro fonti di reddito”. Gli impianti di allevamento spesso privatizzano terreni e vie navigabili pubbliche devastando gli habitat, limitando le possibilità di accesso alle acque, nonché le possibilità di sostentamento con pesca o agricoltura tradizionale.
Gamberi, gamberetti e foreste di mangrovie
Il problema più importante e grave, in quanto inflitto a lungo termine, è la distruzione degli ecosistemi naturali. Lungo le coste, le foreste di mangrovie, vengono abbattute per fare spazio agli allevamenti. In soli dieci anni (tra il 1980 e il 1990) sono scomparse il 35% delle mangrovie del pianeta.
Il ruolo di questi alberi acquatici per il nostro pianeta sarebbe di vitale importanza, ma lo è soprattutto per gli stati costieri. Le mangrovie assorbono parte dell’energia delle onde e delle maree, proteggendo la terra retrostante; gli alberi formano anche una barriera contro il vento e aumentano la resilienza delle zone costiere.
Leggi anche: Cosa succede secondo l’Onu se non si proteggono le mangrovie
In Ecuador il fenomeno è particolarmente evidente, dato che proprio a causa dell’acquacoltura gamberiera il 70 per cento delle foreste di mangrovie sono state eliminate. Inoltre, si deformano le coste, con l’acqua salata che invade territori dove vi sono altre colture o specie vegetali. Sono stati poi soppressi campi coltivati, al fine di fare spazio a vaste distese di acqua marina pullulanti di gamberi. I cicli di allevamento durano solo circa sette anni, dopo resta un deserto con il terreno salinizzato dove non si coltiva più nulla.
Ma il disastro non è limitato solo alla distruzione delle mangrovie. Gli allevamenti di gamberi e gamberetti causano altri danni:
- salinizzazione delle acque dolci e dei terreni agricoli (se l’allevamento è nelle acque interne);
uso di proteine provenienti dalle farine somministrate come mangime proveniente da scarti di pesci “trash fish”; - inquinamento delle acque costiere dovuto all’uso di pesticidi e antibiotici;
- eccesso di nutrienti: il 70% del mangime viene sprecato e si diffonde in mare sconvolgendo l’equilibrio ecologico locale impedendo la vita di altre specie ittiche!
Sul fondo dello stagno di acquacoltura si accumula infatti un deposito tossico di prodotti di scarto e di escrementi che costringe ad abbandonare lo stagno dopo pochi anni di utilizzo per spostarsi altrove.
In Thailandia nel giro di dieci anni sono stati abbandonati il 60 per cento dei siti di allevamento perché ormai inquinati. Occorrono poi almeno trent’anni per poter riabilitare le zone adibite a ex allevamento.
I crostacei provenienti da questi allevamenti contengono le sostanze contaminanti impiegate come disinfettanti, pesticidi, antibiotici (molto probabilmente anche quelli proibiti in Europa). L’impiego di tonnellate di antisettici è inevitabile negli allevamenti, per evitare che si propaghino infezioni, visto che i crostacei crescono nei loro escrementi. Queste sostanze e gli alti livelli di inquinamento organico alterano le difese naturali degli altri pesci selvaggi che vivono in quelle aree e li allontanano da queste zone, quindi diventano inservibili anche per i pescatori che si guadagnano da vivere.
Problemi su diritti umani, lavoro minorile e schiavitù nell’industria dei gamberi in Thailandia
In Thailandia il 90 per cento della forza lavoro del settore ittico, di cui i gamberi sono la fetta principale, impiega 250mila persone che provengono dalla Birmania. Si tratta di lavoratori immigrati, con minime o nulle tutele sindacali. E c’è di peggio. Un terzo di questi lavoratori sono minori di età compresa tra i 15 e i 17 anni. Tutte persone che lavorano in condizioni al limite della schiavitù, fino a 12 ore al giorno, in balia di datori di lavoro senza scrupoli.
Come consumatori non si può più fare finta di niente. “Scegliamo di non acquistare gamberetti e scampi che provengano dall’Asia e se non è possibile verificarne la provenienza, non acquistiamoli affatto – ha detto Aidan McQuade, direttore di Anti-Slavery International – se acquistiamo scampi e gamberetti provenienti dalla Thailandia, tanto più se sono sgusciati, compriamo qualcosa che è stato prodotto rendendo schiavi degli esseri umani”.
L’inchiesta del Guardian era scaturita un rapporto del 2013 della Environmental Justice Foundation, un’organizzazione non governativa, che ha descritto gli abusi nell’industria thailandese dei gamberetti. Ha anche spronato una raffica di risposte aziendali: Walmart ha detto che si sarebbe “attivamente impegnata” nella questione; Costco ha detto che stava dicendo ai suoi fornitori “di intraprendere azioni correttive”; e Tesco, la più grande catena di supermercati in Gran Bretagna, lo definì “completamente inaccettabile”. Un anno dopo, come rileva il Washington Post in un aggiornamento significativamente intitolato “Don’t eat that shrimp”, la situazione non era migliorata.
E infine, come racconta un’ultima, più recente inchiesta della Cbc, in Thailandia, dove s’era promesso di risarcire le vittime della schiavitù con i sindacalisti del settore che avevano elargito abbondanti rassicurazioni, poco s’è smosso. Invece, alcuni pulitori di gamberetti ridotti in schiavitù sono stati deportati. E alcuni capannoni dove si lavorano i gamberetti sono stati ispezionati, riautorizzati a continuano a funzionare. Per riempire le nostre coppette di cocktail di gamberi.
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