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Da Instagram a TikTok, i contenuti di donne dai corpi magri e atletici creano frustrazione. Una nuova ricerca sostiene i benefici del fitness inclusivo.
Il primo fitness influencer è nato circa un secolo prima di Instagram. Secondo il giornalista Will Coldwell, infatti, durante l’epoca vittoriana la popolarità del body builder Eugene Shadow e l’alone di emulazione che riuscì a creare attorno alla propria immagine hanno molto in comune con le star odierne del fitness sui social media, promotrici della controversa “fitspiration”.
Questa crasi di ‘fitness’ e ‘inspiration’ è un fenomeno nato su Instagram e oggi esploso su Tik Tok, che i ricercatori concordano nel definire così: un trend che raffigura immagini di donne dai corpi magri e dall’aspetto atletico mentre posano in abiti sportivi o svolgono attività fisica con l’intento di invogliare chi guarda ad imitare il loro stile di vita. Risultato? Invece di deciderci a bruciare calorie, noi maratonete dello scroll ardiamo di insoddisfazione verso noi stesse e verso il nostro corpo “non conforme”, facili prede di sbalzi d’umore e disturbi alimentari.
Al contrario, scopriamo oggi grazie a un nuovo studio condotto da Eva Pila e Madeline Wood del Body Image and Health Lab alla Western University che guardare contenuti social con canoni corporei inclusivi ci sprona ad allenarci di più e per ragioni più sane. Perché?
L’abbiamo chiesto alla scrittrice e filosofa Maura Gancitano, autrice del libro Specchio delle mie brame. La prigione della bellezza, appena uscito per Einaudi: “Nel mondo del fitness sui social si punta molto sulla crescita personale. Le persone vengono invitate a pensare a come saranno in futuro secondo la triade ormai nota di peccato, redenzione e salvezza: io ho davanti qualcuno che ha peccato, che si è rovinato il fisico, che non ha fatto abbastanza, che è pigro. L’attività fisica è lo strumento di redenzione e che in futuro garantirà la salvezza.
Ma in realtà il meccanismo non funziona perché provoca un senso di colpa enorme che, ormai è chiaro, non ci fa agire di più né ci fa agire meglio. Al contrario, innesca un circolo vizioso che ci spinge ancora di più a detestare noi stessi e a immobilizzarci”.
Una visione che suona plausibile visti i dati raccolti in questa ricerca. Utilizzando un modello di confronto prima-dopo, 797 donne di età compresa tra i 18 e i 30 anni, provenienti da Gran Bretagna, Canada, Stati Uniti e Irlanda sono state esposte a due tipologie di contenuti. Da un lato, i post della tipica fitspiration con i suoi standard corporei votati alla magrezza (strong is the new skinny), dall’altro le rappresentazioni cosiddette ‘positive’ che ritraggono donne con costituzioni fisiche di vario tipo.
L’esito lascia pochi dubbi: nel primo caso, le partecipanti hanno dichiarato di sentirsi motivate al workout per ragioni prettamente estetiche o legate alla perdita di peso; nel secondo caso, si è riscontrata invece una propensione ad allenarsi per motivi di salute/benessere, con un significativo aumento dell’intenzione di farlo per davvero.
“La motivazione a fare attività fisica funziona quando ci si concentra sul piacere immediato e sul benessere che ne derivano, invece che sui risultati”, commenta Gancitano. Un cambiamento sostanziale che potrebbe contribuire a ridurre lo stigma anti-grasso e ad avvicinare allo sport le donne il cui corpo sconfina oltre il perimetro estetico normativo, guadagnando in salute. Snellire il punto vita, ad esempio, rallenta l’invecchiamento e contrasta l’infiammazione, contribuendo a prevenire alcune malattie cardiache.
A questo punto viene da chiedersi se, come a volte accade, la risposta alla discriminazione su determinati corpi non porti a discriminarne altri. Secondo Gancitano questa è una visione limitante, tipica dei social network: “Al di là degli attivisti sui social, chi si occupa di salute sa bene che l’inclusività autentica non è mai giudicante. La soluzione non è smettere di parlare del benessere psicofisico collettivo, quindi anche di sport e alimentazione: il punto è riuscire a farlo in una maniera non stigmatizzante”.
Un esempio arriva da Bologna, dove a febbraio è nata la palestra Queerfit. Ogni sabato propone corsi di fitness “per tutte le identità” e tra uno squat e un burpee davanti allo specchio, insegue un duplice intento: offrire uno spazio sicuro e inclusivo a chiunque non si senta a proprio agio nelle strutture tradizionali e allenare uno sguardo libero da giudizi, rispettoso e compassionevole verso il proprio corpo e quello degli altri.
“La cosa più importante probabilmente è costruire un’immagine positiva di sé, che non deriva dall’aderire a un modello estetico ma dal coltivare un’armonia propria.”, dice Gancitano, “Per le donne, il pensiero sulla bellezza e sul corpo è un’interferenza costante che distrae dalla vita personale e assorbe energie, tempo, denaro. Allora si tratta di dedicare tempo alle cose che interessano veramente, e iniziare a farle, sport incluso. Ma per poterle individuare serve smettere di osservarsi da fuori e tornare a coltivando una consapevolezza enterocettiva: riconoscere il battito cardiaco, il bisogno di riposo, l’appetito, le emozioni”.
In pratica, come emerge anche nella ricerca di Pila e Wood, si tratta di lavorare sull’autocompassione, imparando ad apprezzare le unicità di ciascun corpo, dando meno importanza all’aspetto esteriore, anche nei pensieri, e condividendo il proprio senso di inadeguatezza con gli altri, in modo onesto e costruttivo.
Sembra di scalare una montagna, o forse, come scrisse una volta il monaco buddista Thich Nhat Hanh, “Se sappiamo trattare con rispetto il nostro corpo e le nostre sensazioni, saremo capaci di trattare gli altri con lo stesso rispetto. Ognuno di noi è in grado di farlo. Abbiamo solo bisogno di un po’ di allenamento”.
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