
Con una sentenza storica la Corte costituzionale ha sancito che tutte le vittime di violenza possono ricorrere all’assistenza legale gratuita, grazie al patrocinio a spese dello Stato.
Ispirato al romanzo di Alberto Moravia, che fece scalpore negli anni ’20, arriva il film Gli indifferenti di Leonardo Guerra Seràgnoli. La nostra intervista.
Nulla accade per caso. Nemmeno che un romanzo di novant’anni fa, come Gli indifferenti di Alberto Moravia, torni a parlarci oggi, attraverso un film (omonimo) che debutta in streaming in un momento storico che ci vede “prigionieri” nelle nostre case, e precisamente a ridosso di una ricorrenza come quella del 25 novembre, dedicata a combattere ogni forma di violenza contro le donne. Coincidenze rilette con intelligenza dal regista Leonardo Guerra Seràgnoli, che abbiamo intervistato – come si fa oggi – online, raggiungendolo nella sua casa di Londra. “Qui sto bene, ma torno spesso anche in Italia”.
Dopo due film molto apprezzati, come Last Summer (2014) e Likemeback (2018), il regista romano ha volto lo sguardo indietro, a un titolo fondamentale della nostra letteratura, come Gli indifferenti di Alberto Moravia, per guardare avanti. Una trasposizione meditata a lungo – e suggellata dalla stima ricevuta dall’ultima moglie di Moravia, Carmen Llera – per dare a questa storia una nuova vita e un nuovo finale.
Pubblicato a proprie spese nel 1929, il romanzo d’esordio di un giovanissimo Moravia ebbe un successo strepitoso di pubblico e critica, facendo altresì scalpore e risultando inviso al regime fascista e alle gerarchie ecclesiastiche, per come aveva dipinto la decadenza morale della borghesia di allora. Tanto che lo stesso Mussolini lo definì “oscenamente borghese” e “antiborghese”. Nonostante le ostilità, il romanzo Gli indifferenti divenne la matrice di tutta la fortunata opera di Moravia e ben si presta a una rilettura anche attuale della società, suscitando riflessioni e domande interessanti su noi stessi e su come siamo cambiati dopo quasi un secolo di storia.
Uno spunto stimolante per Leonardo Guerra Seràgnoli che già coi suoi primi film si era confrontato con le dinamiche famigliari e il rapporto genitori-figli (Last Summer) e con tematiche di carattere sociale e di attualità, come l’influenza dei social sui giovani e nei rapporti personali (Likemeback).
Protagonista del film è, come nel libro, la famiglia Ardengo, esponente di quella borghesia romana che oggi chiamiamo classe dirigente e che forse, a parte il nome, non è così cambiata rispetto a un secolo fa. I giovani fratelli Michele e Carla, interpretati nel film da Vincenzo Crea e Beatrice Grannò, nel 2020 sono uno studente di ritorno da un’esperienza in Russia e una streamer (così si chiama chi trasmette in diretta se stesso o un contenuto su una piattaforma dedicata), che si sente più felice e realizzata nel suo mondo virtuale che in quello reale. Il ruolo della madre Mariagrazia è affidato a Valeria Bruni Tedeschi, vedova completamente avulsa dalla realtà e impegnata a difendere con ogni mezzo il suo status sociale e il suo attico, minacciati dalla bancarotta. Dopo la morte del marito, la sua agiata esistenza borghese è, infatti, costantemente a rischio e tenuta a galla solo grazie al sostegno del faccendiere, nonché suo amante Leo (Edoardo Pesce).
Il suo aiuto però è dettato solo da un becero interesse personale. L’uomo vuole impossessarsi con l’inganno del loro attico milionario e contemporaneamente di sedurre la giovane Carla, appena diciottenne. In parallelo, Michele, unico ad accorgersi del doppio gioco di Leo, porta avanti un goffo tentativo di fermare l’uomo, mentre intesse una relazione clandestina con un’amica di sua madre, Lisa (Giovanna Mezzogiorno). Tutta la vicenda è accompaganta fin dall’inizio da lievi scosse sismiche, che restando sullo sfondo, metaforicamente anticipano il terremoto che scuoterà tutta la loro esistenza, scandita da non detti, menzogne e depravazioni.
In questa trasposizione del romanzo, il regista sceglie però di offrire una seconda chance a Carla, percependo “l’urgenza di cambiare qualcosa di un sistema claustrofobico” e cogliendo quasi un lascito, tra le righe del finale sospeso del romanzo, lasciatoci in eredità da Moravia novant’anni fa. Una sfida presa in carico magistralmente da un cast molto convincente anche in scene disturbanti e delicate, e diretto con grande mestiere dal regista.
Come mai ha scelto di riportare in scena oggi questo romanzo di quasi un secolo fa?
Io sono un po’ cresciuto con Moravia. Da quando l’ho conosciuto al liceo me lo sono sempre “portato dietro”. A un certo punto ho incontrato Carmen Llera, seconda moglie di Moravia, a cui era piaciuto molto il mio primo film. Mi chiese quale romanzo di Moravia avrei adattato e io d’istinto risposi “Gli indifferenti”, perché mi sembrava un romanzo molto attuale, molto in tema con il mio interesse per i nuclei famigliari, come terreni di guerra. Inoltre è un romanzo interessante, perché suscita tante domande. Porta a interrogarsi su chi sono gli indifferenti di oggi, a chiedersi come siamo diventati, se ci siamo evoluti o involuti.
E chi sono questi indifferenti di ieri e di oggi?
Per me, e forse anche per Moravia, indifferenza non è tanto il non fare delle cose, e quindi un sinonimo di inazione, ma piuttosto un guardare altrove. Non riuscire a guardare la realtà, cercare di vivere distaccati da essa. Questa è una questione psicologica, un’attitudine alla vita che esula dalla classe sociale. Quando uno ha i mezzi ha più facilità a farlo. Ecco perché questa classe sociale rischia di cadere più facilmente in quelle che sono le dinamiche che vediamo nel film. Il meccanismo che si innesca è quello di accettare qualsiasi mezzo, pur di mantenere il tuo stato sociale, economico o psicologico. I mezzi ti abituano a un certo tipo di vita e quando li perdi, come nel caso degli Ardengo, c’è l’incapacità di accettare questa perdita e inizia un tentativo disperato di tenere in piedi la tua realtà ego-riferita, che taglia fuori tutto il resto e si limita al culto delle cose materiali. Da un lato è un meccanismo molto trasversale e forse ancora più contemporaneo, rispetto ai tempi di Moravia. Pensiamo al culto che abbiamo dei telefonini… Nel film il personaggio di Mariagrazia a un certo punto dice: “Se divento povera non mi amerà più nessuno” e questo è esemplare del pensiero di una certa classe sociale, convinta di non poter esistere da povera.
Nel film ci sono diversi momenti di festa e di balli grotteschi, che stridono con gli stati d’animo dei personaggi. A un certo punto Mariagrazia parla di un “ballo liberatorio”. Ci spiega il significato?
Gli indifferenti li ho sempre immaginati attraverso la rappresentazione di una danza macabra sull’orlo di un precipizio. Sono tutti fintamente festosi e danzanti. Mariagrazia si riferisce a una tecnica per evitare di affrontare i problemi. C’è un continuo tentativo di stordimento e la festa, insieme alla pseudo sessualità, sono i loro modi per evitare la realtà.
Il film è uscito proprio a ridosso della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che è anche un tema centrale della storia. Che ruolo può avere il cinema in questa lotta che riguarda tutti?
Il cinema può avere un ruolo importante. Quando uno fa un progetto artistico e ha la possibilità, non scontata, di arrivare a delle persone, la speranza è che generi una riflessione e apra delle domande. Il film parla di un tema molto attuale e non è un caso se abbiamo scelto di cambiare il finale rispetto a quello del romanzo. L’idea era proprio quella di portare Moravia e Carla nella contemporaneità, dove per difendersi esistono mezzi diversi rispetto a quelli degli anni ’20. Il messaggio è che in queste situazioni è possibile dire la verità, cambiare le cose e invertire la direzione. Immagino che per persone che subiscono questo tipo di violenza domestica sia una cosa molto delicata. La speranza è che un film così aiuti a capire che si può uscire da quel tipo di dinamica e che ci sono i mezzi per farlo. In generale i film sono una rappresentazione della vita e ti aiutano proprio facendoti vedere ciò che tu non vedi dentro te stesso.
Da regista, come ha vissuto il fatto che il suo film non sia uscito al cinema, ma direttamente in streaming?
All’inizio è stato difficile da accettare. La fruizione sul grande schermo e in un luogo come la sala cinematografica, dove c’è condivisione con degli sconosciuti, è diversa da quella sul divano di casa. Però, forse, le cose non capitano per caso, ed è interessante, come notato da Valeria (Bruni Tedeschi ndr), che questo film, che parla di una casa e di una famiglia, venga guardato lì, dove questo campo di battaglia più in assoluto si può manifestare. Può diventare un momento di grande unità e magari stimolare una riflessione su ciò che uno può migliorare a livello di rapporti. Comunque, quando l’emergenza finirà, speriamo di poter organizzare delle proiezioni al cinema, con serate evento in giro per l’Italia. Perché il film merita di essere visto su un grande schermo, che valorizza non solo la potenza di alcune scene ma anche tutto il lavoro e la ricerca fatta sul suono.
Come pensa che uscirà il mondo del cinema da questa fase così difficile, in cui ci siamo dovuti abituare a guardare i film solo in tv o sullo schermo di un pc?
Ho un po’ paura rispetto alle generazioni più giovani, che erano già poco abituate ad andare al cinema. Spero che non abbia scalfito tutti quelli che al cinema ci andavano ancora e che, dopo tutto questo distanziamento, torni la voglia di andarci proprio per ritrovarsi e stare insieme, come accadeva nei primi cinema di avanspettacolo, dove era un modo di socializzare.
Questo è il suo terzo lungometraggio, dopo due film che sono passati per festival importanti e hanno ricevuto premi. Quali sono state le soddisfazioni più grandi finora?
La soddisfazione più grande sono le persone che mi scrivono per dirmi che il mio film gli è rimasto dentro. Trovare qualcuno che si sintonizza su quello che hai fatto, lo riconosce non tanto dal punto di vista della qualità ma dal punto di vista emotivo. Questo è il motivo profondo per cui faccio questo lavoro: avere una condivisione con le persone, sia di esperienze che di riflessioni. Anch’io mentre faccio un film rifletto e tendo a non dare una chiusura, ma di pormi sempre delle domande.
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