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Consumatori attenti all’etichetta! di Giorgio Celli

L’anno scorso, la Commissione del Parlamento Europeo, aveva fatto formale promessa che, nell’arco di pochi mesi, avrebbe deciso qualcosa nei riguardi dell’etichetta da porre sui cibi, perché i consumatori sapessero se quello che mettono nel piatto deriva o no da vegetali transgenici, altrimenti detti OGM, anche se non troppo propriamente. Si sa che questa esigenza

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L’anno scorso, la Commissione del Parlamento Europeo, aveva fatto
formale promessa che, nell’arco di pochi mesi, avrebbe deciso
qualcosa nei riguardi dell’etichetta da porre sui cibi,
perché i consumatori sapessero se quello che mettono nel
piatto deriva o no da vegetali transgenici, altrimenti detti OGM,
anche se non troppo propriamente.

Si sa che questa esigenza è molto sentita dai consumatori di
tutti i paesi del nostro continente, che desiderano, e la cosa mi
sembra più che legittima, sapere che cosa mangiano. La
stessa circostanza, se ricordo bene, si é verificata qualche
decennio or sono per gli additivi alimentari, nella fattispecie per
i coloranti. Questi composti di sintesi, secondo le multinazionali
che li producevano, sarebbero stati del tutto innocui per la
salute, e tuttavia, molti di essi, in seguito a sperimentazioni
più accurate, si sono poi rivelati a dir poco mutageni, e
come tali sono stati esclusi dal commercio.

Non vi sembra giusto che, anche allora, fosse un diritto di tutti
sapere che quella marmellata era così rossa, o quella
caramella così verde, perché era stata “colorata”
chimicamente? Ora, le multinazionali delle biotecnologie, sembrano
voler contestare questo diritto elementare di conoscenza. In parole
povere, non vogliono alcuna etichetta che denunci la presenza di
OGM nei prodotti destinati alla mensa. Il perché, senza far
troppe congetture, appare trasparente: si teme che il consumatore
operi, negli acquisti, delle scelte a sfavore di questi cibi di
origine transgenica.

Al Parlamento, la controversia sta entrando attualmente nell’occhio
del ciclone, e gli scienziati delle biotecnologie vengono inviati
nelle commissioni per cercare di dimostrare che l’etichetta
è inutile, e perfino ridicola. Un noto ricercatore spagnolo,
é venuto nella commissione agricoltura, di cui io faccio
parte, e, vantando una trentennale competenza, in altre parole
invocando l’ipse dixit, ci ha spiegato che, siccome una molecola di
zucchero ottenuta da bietole transgeniche, e un’altra derivata da
bietole normali, erano eguali a tutti gli effetti, non aveva senso
distinguere la ciambella dolcificata con l’una, da quella
dolcificata con l’altra. Sorvoliamo sul fatto che un prodotto
industriale che non contenga dei residui della matrice d’origine,
è soltanto una favola,
ma, adottando la procedura per assurdo, supponiamo che il nostro
scienziato abbia perfettamente ragione. Una mela, che provenga dai
frutteti dell’agricoltura biologica, e una mela che sia stata
prodotta con le pratiche hard dell’agricoltura industriale,
potrebbero essere, sì, entrambe esenti da residui tossici,
ma le loro valenze ambientali sarebbero ben differenti. La mela
biologica ha un diverso pedigree di quella industriale: l’una ha
favorito la conservazione ambientale, e la biodiversità,
l’altra, con il ricorso alla chimica, ha fatto tutto il contrario.
Ora, quando si certifica un prodotto biologico, non basta che sia
esente da residui, ma si esige che sia stato ottenuto con metodi
ecocompatibili.

Le statistiche, soprattutto statunitensi, ci informano che il mais
transgenico ha fatto crescere l’impiego di erbicidi e che gli
insetticidi mostrano una certa tendenza all’incremento,
diversamente da quanto le multinazionali ci avevano promesso, e
cioè l’azzeramento della chimica di sintesi nei campi OGM.
Ragion per cui, coltivare piante transgeniche non equivale di certo
a fare dell’agricoltura biologica, e neppure sostenibile.

Anche se le due molecole di zucchero fossero eguali dal punto di
vista chimico, non lo sarebbero dal punto di vista degli impatti
ambientali. Dunque, sì all’etichetta.

Giorgio Celli

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