Una ricerca americana confronta gli impatti di pesticidi e fumo sull’incidenza del cancro, evidenziando un’importante sovrapposizione.
Perché guardare sugli schermi immagini violente ha un impatto negativo sulla salute
Secondo gli esperti, guardare troppe immagini violente danneggia la salute, provocando ansia, stress e paura. Esserne consapevoli ci aiuta a proteggerci.
- Per gli studiosi esiste una correlazione tra l’esposizione massiccia a immagini violente e l’innesco dei sintomi da stress.
- La notizia veicolata da un’immagine ha un impatto maggiore sull’equilibrio psicofisico, rispetto all’ascolto o alla lettura della stessa.
- Occorrono nuove ricerche per definire un equilibrio tra la necessità informazione e la tutela della salute.
Le guerre, le stragi. Scene cruente arrivano sempre più spesso ai nostri occhi. Secondo gli esperti, guardare ripetutamente immagini violente ha un impatto negativo sul nostro cervello e sulla nostra salute. Stress, disturbi del sonno, ansia, sono gli effetti avversi più comuni. Essere consapevoli dei riflessi dei contenuti sensibili sul nostro equilibrio è importante; può aiutarci a calibrare l’utilizzo del web e dei social network e a riconoscere subito i campanelli d’allarme.
Se da un lato c’è la responsabilità di scelta personale, dall’altro c’è quella dei media, che sfruttano un meccanismo evidenziato dalle ricerche scientifiche come leva di marketing: “If it bleeds, it leads” ovvero “Se c’è sangue, vende”. Per approfondire questo tema abbiamo intervistato la dottoressa Antonella Somma, ricercatrice senior di psicologia clinica all’Università Vita Salute San Raffaele di Milano e consulente del servizio di psicologia clinica e psicoterapia all’Ospedale San Raffaele Turro.
Cosa succede, quali processi si innescano, quando guardiamo un’immagine cruenta?
Gli esseri umani hanno un’attenzione selettiva per gli stimoli negativi. A colpirci sono più le immagini negative e violente di quelle positive.
L’attenzione viene maggiormente attratta da un elemento di valenza negativa perché questo ci permette di attivare delle reazioni di risposta alla minaccia. In altre parole, vedo qualcosa di terribile e la mente reagisce come se si trovasse di fronte ad un pericolo, attivandosi per elaborare strategie di sopravvivenza. Quando le immagini cruente si riferiscono a fatti di cronaca realmente accaduti, possono rappresentare degli “amplificatori emotivi”, che innescano reazioni di ansia, paura e minaccia.
Quali sono gli effetti sulla nostra salute?
Un numero crescente di studi sembra indicare che l’esposizione alla visione di fotografie atroci possa avere un impatto negativo sulla salute.
In particolare, la ricerca si è concentrata sulle conseguenze della copertura mediatica dei traumi di massa. Quando ad esempio c’è una guerra in atto, magari vicino a noi, le notizie e le immagini arrivano sette giorni su sette, 24 ore al giorno. Tale esposizione prolungata può innalzare i livelli di preoccupazione e paura. Infine, c’è il rischio che le immagini a forte contenuto emotivo vengano immagazzinate nella memoria a lungo termine.
Più precisamente, che sintomi possono presentarsi?
Sono le reazioni da ansia e stress, come ad esempio l’aumento del battito cardiaco e della sudorazione, o la difficoltà di respirazione. A lungo andare infatti, l’attivazione può diventare anche fisiologica e non solo emotiva, facendoci entrare in un circolo vizioso.
Può descrivere meglio il circolo vizioso che ci tiene agganciati agli effetti delle immagini negative?
La questione è duplice: se una notizia ha creato ansia, può esserci la tendenza a voler tornare sull’argomento facendo continue ricerche sul web. L’intenzione è quella di placare lo stato ansioso ancorandoci alla possibilità di governare la situazione ma, molto spesso, si ottiene l’effetto contrario. Similmente, più siamo esposti ad immagini violente, più aumentano i pensieri intrusivi e più diminuisce la nostra capacità di proteggerci e non farci travolgere da quello che vediamo.
Quali sono i campanelli d’allarme?
Sono tutti quegli elementi che evidenziano la difficoltà di mettere la giusta distanza tra l’immagine che ho visto, con i pensieri intrusivi ad essa legati, e la mia vita reale. Quando, ad esempio, la foto che mi ha scosso continua a tornarmi alla mente, sia di giorno come flashback, che di notte, come incubo.
Esistono categorie più a rischio?
L’impatto avviene su tutti noi, ma le reazioni variano in maniera considerevole a seconda delle caratteristiche personali e delle esperienze pregresse. Semplificando, il modo in cui siamo fatti determina il tipo di reazione. A cambiare è la modalità con cui il contenuto sensibile o lo stimolo vengono processati. Per esempio, diversi studi mostrano come l’esposizione alla violenza presentata dai media possa innescare la messa in atto di azioni violente in soggetti con alti livelli di aggressività. Al contrario, persone più fragili e tendenti alle emozioni negative presentano fattori di rischio più elevati per la loro maggiore permeabilità. Altre caratteristiche personali come la freddezza emotiva e l’insensibilità, possono determinare reazioni difformi rispetto a quelle attese, come l’indifferenza o, nei casi più estremi, anche la piacevolezza, anziché il disgusto e l’orrore. La questione diventa ancora più complessa se si considera l’effetto su persone che hanno vissuto esperienze analoghe o che hanno assistito a scene comparabili. In questi casi, la visione di queste immagini può rappresentare un vero e proprio fattore di “innesco” per la comparsa, o la ricomparsa, di sintomi del disturbo da stress post-traumatico, come sogni vividi, ipervigilanza, reazioni di evitamento e umore irritabile.
Quali sono le conseguenze invece sui bambini?
I minori meritano un discorso a sé stante. In questo caso, la letteratura scientifica mostra come l’esposizione a contenuti violenti, in televisione o nei videogiochi, nell’infanzia e nell’adolescenza aumenti il rischio di messa in atto di comportamenti aggressivi e di utilizzo di sostanze nelle fasi successive, ovvero nella tarda adolescenza e nella prima età adulta. Inoltre, la visione di immagini violente può portare i soggetti in età evolutiva ad avere livelli maggiori di timore nei confronti del mondo che li circonda, oppure dimostrare una minore sensibilità nei confronti della sofferenza altrui.
Perché in alcune persone c’è la tendenza a voler ricercare proprio quel tipo di scene?
La preoccupazione per ciò che si verifica attorno a noi e nel mondo, può spingere verso la ricerca di immagini esplicite di questi eventi. Inoltre, come detto precedentemente, sono gli stimoli negativi ad attirare di più la nostra attenzione. Un recente studio pubblicato su Nature prende spunto dal motto “If it bleeds, it leads”, ossia “Se c’è sangue, vende” per mostrare come, per ogni parola a valenza emotiva negativa inclusa nei titoli di notizie pubblicate online, vi fosse un incremento del numero di visualizzazioni dell’articolo. Altre ricerche poi, hanno messo in evidenza come le persone che amano le sensazioni forti e il brivido siano maggiormente attratte da immagini ad alto impatto emotivo negativo, tanto da ricercarle attivamente.
Ascoltare una notizia in radio o vederla attraverso un’immagine ha effetti diversi?
Ascoltare una notizia, seppur terribile, consente all’ascoltatore di riflettere su quello che è accaduto da una prospettiva esterna, mantenendo una distanza tra ciò che si sta ascoltando e ciò che si sta vivendo personalmente. Lo stesso vale per la lettura. Il fatto che sia una voce narrante esterna a metterci a conoscenza dei fatti, ci consente di elaborare il contenuto, nel quale siamo invece catapultati quando si tratta di immagini a contenuto sanguinoso. Per avere un’idea del fenomeno, possiamo pensare all’impatto della visione di un film horror su un minore e alle reazioni generate dall’ascolto della trama dello stesso film sullo stesso minore: è probabile che si risvegli per i brutti sogni a seguito della visione di una scena sanguinosa, ma difficilmente questo accadrà a seguito dell’ascolto della descrizione della stessa scena, seppur le parole possano generare turbamento emotivo.
La sovraesposizione a notizie e immagini forti può abituarci alla violenza, rendendoci passivi?
In un certo senso si. L’esposizione abituale a contenuti sanguinosi può associarsi ad una comparsa più rapida di pensieri di natura violenta e ad una certa “desensibilizzazione”. La risposta emotiva si riduce perché lo stimolo perde gradualmente la capacità di generare reazioni intense. Vale a dire: più lo stimolo è frequente, più, gradualmente, diminuisce la reazione. Come in una sorta di “assuefazione”.
Conseguentemente, la riduzione della risposta emotiva può innescare una minore compassione nei confronti delle vittime e un minore desiderio di intraprendere azioni a loro supporto. Naturalmente, occorre ricordare che, anche in questo caso, le differenze individuali e le esperienze pregresse rivestono un ruolo determinante nella risposta.
C’è qualcosa che i media possono e dovrebbero fare per evitare ripercussioni negative sulle persone?
È un tema rilevante e complesso. Certamente, sono necessari ulteriori studi per valutare quale sia il bilancio ottimale tra tutela della salute e necessità di informazione. L’obiettivo è determinare strategie di condivisione di contenuti tanto realistici quanto sicuri per la maggior parte della popolazione, con un’attenzione particolare alle categorie vulnerabili e ai minori. È chiaro che va considerato il ruolo dell’informazione come strumento per generare consapevolezza condivisa in merito alla gravità di alcuni fatti di cronaca. Infine, non bisogna dimenticare l’impatto della visione delle immagini efferate su chi svolge professioni che espongono a questo contenuto. Per esempio, uno studio canadese del 2013 ha messo in evidenza come l’elevata frequenza di visione di immagini a contenuto violento ha un impatto significativo sulla salute emotiva dei giornalisti coinvolti.
Come possiamo ripristinare uno stato di equilibrio?
Bisogna sforzarsi di stare lontani dalle fonti visive, passando ad esempio all’ascolto della radio. Mi riferisco ai casi più comuni e meno gravi, quelli in cui la qualità della vita della persona non è compromessa e che non necessitano quindi dell’intervento di un professionista. Il punto è, di nuovo, recuperare la distanza tra la mia situazione e le notizie che mi arrivano. Questo non significa generare disinteresse, ma possibilità di fronteggiare la situazione.
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