
La sostenibilità si nutre di innovazioni. Nel tessile vediamo l’applicazione virtuosa di tecnologie che apparentemente non c’entrano nulla.
Italdenim ha eliminato qualsiasi sostanza tossica dai suoi denim. A raccontarci come ha fatto è Gigi Caccia, amministratore delegato dell’azienda.
Italdenim nasce come azienda specializzata nella produzione di denim d’alta qualità. Quando, precisamente, avete colto nella sostenibilità nuove opportunità di sviluppo?
Abbiamo iniziato verso il 2008-2009 ad avere una maggiore attenzione per la sostenibilità. Abbiamo ricercato prodotti particolari, ma il mercato, e neanche le tecnologie, permettevano grandi innovazioni. Era una sostenibilità dovuta più che altro alle certificazioni come GOTS (Global Organic Textile Standard), che prevedeva l’uso di prodotti chimici certificati, e cotoni certificati. Poi, con gli anni, abbiamo cercato di affinare le nostre conoscenze su come migliorare il nostro impegno verso la sostenibilità.
Il rispetto dell’ambiente è molto importante nell’industria tessile che registra da sempre uno dei più alti tassi di pratiche impattanti. Quali sono le iniziative originali che fanno di voi un’azienda sostenibile?
Abbiamo eliminato tutta una serie di prodotti chimici e, di conseguenza, anche l’utilizzo dell’acqua e dell’energia necessaria a lavare i tessuti prima di metterli sul mercato. Inoltre, abbiamo eliminato anche i fissatori, cioè tutti quei prodotti che servono a fissare il colore sul filo. Insomma tutta una serie di vantaggi che ci hanno permesso di aderire al Detox Commitment di Greenpeace.
Il denim è un tessuto la cui produzione prevede un importante utilizzo di risorse idriche e sostanze chimiche che inquinano l’ambiente e sono altamente tossiche per la salute. Quali soluzioni avete adottato per creare un prodotto ecologico?
Noi utilizziamo il chitosano, un polimero naturale derivato da scarti della lavorazione alimentare. E, proprio grazie a questo prodotto naturale, abbiamo eliminato tutta una serie di prodotti chimici che prima, invece, usavamo. Abbiamo scoperto che i sistemi di depurazione non riescono ad eliminare tutti i prodotti chimici. Tra questi c’è l’alcool polivinilico, meglio conosciuto come PVA, una microplastica che si elimina solamente con l’uso, quindi con i lavaggi continui. Ed è talmente piccola che non si riesce ad eliminare con nessun sistema e finisce nei fiumi o nei mari e, di conseguenza, viene mangiata dai pesci. Questo è un grave problema insito nella produzione di jeans, ma nessuno, per il momento, sembra interessarsene.
E il cotone biologico, lo usate?
Sì, certamente, usiamo cotoni organici certificati GOTS, però, ad essere onesti, io mi faccio alcune domande. Tecnicamente dovrebbe esserci una produzione di cotone bio pari all’1 per cento della produzione di cotone in generale, ma in pratica tutti vendono tessuti fatti con cotone organico. In più, i primi fornitori di cotone organico per il mercato europeo sono la Turchia e l’India. La Turchia sta comprando il cotone siriano, quello prodotto nelle zone di guerra, e lo mischia a quello normale, anche se non si potrebbe. Il cotone indiano, invece, richiede più di 20 metri cubi di acqua ogni kg di cotone prodotto e sta prosciugando i fiumi indiani.
Potete fornirci qualche dato concreto sulla riduzione delle emissioni di CO2 che avete raggiunto grazie agli investimenti attuati nel vostro stabilimento produttivo?
Negli ultimi 5 anni abbiamo evitato le emissioni di oltre 7 milioni di chili di CO2, che corrispondono a non so quante migliaia di alberi ad alto fusto. E questo è certificato dal GSE, attraverso i certificati bianchi, che poi hanno anche un valore economico. Ma il grande vantaggio è nella diminuzione della quantità d’acqua utilizzata: mediamente la nostra riduzione è intorno al 60 per cento, però, su alcuni articoli, riusciamo a raggiungere anche il 90 per cento di acqua in meno. Un traguardo fondamentale perché il jeans, nel mondo del tessile, è il più grande consumatore d’acqua e il più grande inquinatore.
La vostra azienda è impegnata nel sociale al fianco del gruppo Aleimar che è molto attivo in Congo. Qual è il vostro contributo in questo progetto?
Quando hanno bisogno di mandare merce e materiali, noi li aiutiamo con tutta la parte logistica reperendo i migliori fornitori e, se ce n’è bisogno, pagando questi servizi. Forniamo anche materiali: ultimamente abbiamo dato un generatore di energia che serviva, in mancanza di elettricità, nell’ospedale di Lubumbashi e delle pompe per l’acqua. In più, diamo anche aiuti economici a una scuola creata da suore congolesi che tolgono dalla strada le bambine abbandonate e danno loro istruzione e protezione. In Congo, infatti, quando nasce una femmina, si trova una qualsiasi motivazione per abbandonarla perché, chiaramente, la bambina nei primi anni non può dare un grande aiuto economico alla famiglia. E una bambina abbandonata in mezzo a una strada non ha alcun futuro.
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