Non c’è stato Natale a Gaza e nemmeno in Cisgiordania

Si intensificano i bombardamenti sui campi profughi di Gaza e in diverse città della Cisgiordania, anche durante le feste natalizie. Il rischio è che il conflitto assuma una dimensione interregionale.

  • Aumentano i bombardamenti sulla Striscia di Gaza, con gli attacchi ai campi profughi di al-Maghazi e Bureij, e nella Cisgiordania occupata durante le festività natalizie.
  • La comunità cristiana cancella le festività natalizie in solidarietà con Gaza.
  • L’Egitto propone un piano per il rilascio degli ostaggi e il cessate il fuoco permanente.
  • L’omicidio del generale iraniano Mousavi a Damasco potrebbe allargare il conflitto.

Nessuna tregua per le giornate di Natale nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania. Le festività natalizie sono state caratterizzate da intensi bombardamenti e dall’acuirsi delle incursioni dell’esercito israeliano in molte città della Cisgiordania.

Domenica 24 dicembre, le forze israeliane hanno bombardato i campi profughi di al-Maghazi e Bureij, nel centro della Striscia. Il bilancio delle vittime riporta almeno 70 morti a Maghazi e almeno 100 a Bureij. Secondo il ministero della Salute di Gaza, questo attacco è uno dei più letali dall’inizio della guerra.

Il campo di al-Maghazi è uno dei più densamente popolati della Striscia e già il mese scorso era stato attaccato dalle forze israeliane, in un bombardamento che ha causato la morte di 50 civili. Molti osservatori hanno paragonato questo bombardamento con quello avvenuto su Jabalia nel mese di novembre, in cui sono morte almeno 90 persone.

Oltre ai campi di Maghazi e Bureij, diversi bombardamenti hanno colpito il quartiere al-Amal nella città meridionale di Khan Younis, così i campi di Nuseirat e a Juhor ad-Dik nel centro di Gaza. In 24 ore ore, le forze israeliane hanno ucciso almeno 250 persone. Secondo il ministero della salute di Gaza, tra sabato e martedì, 858 palestinesi sono stati uccisi e 1.598 sono stati feriti nella Striscia.

Il Natale cancellato a Betlemme

Nessuna decorazione, nessun albero e nessuna luminaria a Betlemme, la sede della Chiesa della Natività, dove quest’anno sono state annullate le celebrazioni. Il mese scorso, in una dichiarazione, i patriarchi delle varie chiese di Gerusalemme hanno esortato le loro congregazioni a rinunciare alle attività festive e concentrarsi maggiormente sul significato spirituale del Natale.

Le poche decorazioni presenti nella città hanno un esplicito riferimento politico a ciò che sta avvenendo nella Striscia di Gaza: dal presepe con statue circondate da macerie al bambin Gesù posto all’interno di un’incubatrice e poggiato su una kefiah bianca e rossa dell’artista palestinese Rana Bishara, come rimando ai neonati deceduti in seguito al raid dell’ospedale Al-Shifa.

Persino i sacerdoti non hanno rinunciato al simbolismo politico. Il patriarca latino di Gerusalemme Pierbattista Pizzaballa è arrivato domenica alla Chiesa della Natività vestito con la tradizionale kefiah bianca e nera. Durante la sua liturgia ha dichiarato che “il nostro cuore va a Gaza, a tutta la gente di Gaza, ma un’attenzione particolare alla nostra comunità cristiana di Gaza che sta soffrendo”. Ancora più politica è stata la liturgia del reverendo Munther Isaac della Chiesa evangelica luterana di Betlemme, in cui ha espresso profonda indignazione indignazione per il silenzio e l’inazione globale nei confronti di ciò che sta succedendo a Gaza. Anche dal Vaticano si è alzato forte e chiaro un appello contro la guerra. Papa Francesco ha dato il via alle celebrazioni natalizie globali con un lamento: il messaggio di pace di Gesù è affogato dalla “futile logica della guerra” nella stessa terra in cui è nato.

L’aumento dei raid in Cisgiordania

Betlemme non è solo stata marcata dalla cancellazione delle festività, ma anche dai raid israeliani durante il giorno di Natale. Le incursioni sono iniziate nel campo profughi di Jenin, ripetutamente presa di mira dalle forze israeliane a partire dal 7 ottobre, dove sono stati effettuati diversi arresti.

Oltre a Jenin e Betlemme, anche le regioni di Nablus, Gerico e Ramallah sono state oggetto di incursioni nella notte di Natale da parte delle forze israeliane. Nel villaggio di Burqa, a nord-ovest della città di Nablus, nella Cisgiordania occupata, le forze israeliane hanno arrestato almeno 20 persone, tra cui anziani.

Tra le persone arrestate a Ramallah spicca il nome di Khalida Jarrar, esponente femminista del Fronte popolare palestinese che già tra il 2019 e il 2020 è stata prigioniera nelle carceri israeliane senza un capo di imputazione, attraverso lo strumento della detenzione amministrativa. I raid in Cisgiordania continuano e nella mattinata di mercoledì 27 dicembre almeno sei persone sono state uccise da un bombardamento con droni nel campo profughi di Nur Shams nei pressi della città di Tulkarem.

Il piano dell’Egitto e l’omicidio di Mousavi

Lunedì è stata resa pubblica la proposta egiziana di un piano per la gestione della Striscia di Gaza e per la fine della guerra. Il piano prevede il rilascio graduale degli ostaggi e la formazione di un governo palestinese di esperti per amministrare la Striscia e la Cisgiordania occupata. La proposta e i dettagli sono stati elaborati dall’Egitto insieme Qatar, principali mediatori tra Hamas e Israele. 

Sia Hamas che il Jihad Islamico palestinese avrebbero rifiutato la proposta egiziana perché Hamas dovrebbe rinunciare al controllo della Striscia in cambio di un cessate il fuoco permanente. L’Egitto ha proposto anche delle elezioni e ha offerto garanzie ad Hamas, ma, secondo quanto riportato da Reuters, il gruppo ha rifiutato qualsiasi concessione oltre al rilascio degli ostaggi.

Il Cairo rimane il centro dei negoziati. In queste ore re Abdullah II di Giordania sta raggiungendo la capitale egiziana per discutere con al-Sisi la possibilità di un cessate il fuoco permanente.

Oltre alla preoccupazione per l’escalation a Gaza e in Cisgiordania, le tensioni crescono a causa dell’aumento degli scontri e dei bombardamenti nel Libano meridionale, del continuo stallo del traffico marittimo nel Mar Rosso, sotto il controllo degli Houti, ma soprattutto di ciò che sta avvenendo sul fronte siriano.

Lunedì un attacco aereo israeliano in un quartiere di Damasco ha ucciso un generale iraniano di alto rango, Sayyed Razi Mousavi, da tempo consigliere delle Guardie Rivoluzionarie paramilitari iraniane in Siria. 

Il presidente iraniano Ebrahim Raisi, nell’esprimere le condoglianze per la morte del generale, ha minacciato Israele. Moussavi è il secondo generale iraniano di alto rango ucciso dopo Qasem Soleimani, l’ex leader delle forze Quds ucciso in un attacco di droni statunitensi a Baghdad quasi quattro anni fa.

Il fronte siriano è certamente più fragile e più probabile per un allargamento del conflitto. Giordania ed Egitto, oltre ad avere relazioni diplomatiche da anni con Tel Aviv, non vogliono un allargamento della guerra su scala regionale e sono in prima linea nelle mediazioni. Nonostante le minacce di Hezbollah e i continui scontri nel sud del Libano, la presenza della missione delle Nazioni Unite Unifil potrebbe evitare un’ulteriore escalation

Il confine siriano, invece, è completamente scoperto. Oltre alla questione delle Alture del Golan occupate dal 1967, Israele negli ultimi anni ha effettuato centinaia di attacchi contro obiettivi all’interno di zone controllate dal governo siriano. Di solito non riconosce i suoi attacchi aerei in Siria, ma quando lo fa, Tel Aviv dichiara di colpire i gruppi sostenuti dall’Iran che hanno appoggiato il governo di Assad. Ed è proprio sulla Siria che la non belligeranza iraniana potrebbe crollare.

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