Parlarsi e capirsi

Quanti malintesi e quanti conflitti nascono semplicemente dall’incapacità diffusa di “ascoltare” davvero, fare silenzio dentro di sé e aprirsi nei confronti di quello che l’altro vuole dire. Ecco le basi per creare un vero dialogo.

In ogni incontro, casuale o di lavoro, tra amici o sconosciuti,   con il partner o un negoziante, non scambiamo solo parole e   concetti, ma molto di più. Sono due interi mondi che si   incontrano, per pochi istanti, per anni o per vite intere. Se non   si comprende la ricchezza e la possibile varietà di queste   due dimensioni che si incontrano, non si potrà mai capire   né accompagnare la complessità delle   relazioni che possono nascere.

Quanti malintesi nascono dal non prendere in considerazione che il   nostro interlocutore non è necessariamente “fatto” come noi,   e che quindi ha una sensibilità, visione del mondo,   percezione della realtà diverse dalla nostra. Quanti   conflitti   nascono dal “non ascolto” più che da reali contrapposizioni,   o dall’utilizzo indiscriminato di luoghi comuni mai messi in   discussione…      Senza un opportuno allenamento, quando parliamo con gli altri, la   maggior parte delle volte non parliamo davvero con loro, ma con   l’idea che ci siamo fatti di loro, o con il riflesso di qualche   altra figura – spesso la madre o il padre – che con l’interlocutore   presente non ha a a che fare. Senza un opportuno allenamento,   quando parliamo con gli altri, parliamo in realtà da soli e   non ascoltiamo neppure quello che l’altro dice davvero. Non   c’è da stupirsi se poi, anche nelle relazioni più   importanti, “non ci si capisce”.

Come fare? Cominciare ad  ascoltare. Esercitarsi ed educarsi ad ascoltare   l’altro, concentrando davvero l’attenzione su quello che sta   dicendo. Di più. Partire dal presupposto che l’altro ha   ragione e farsi spiegare bene che cosa intende sino a quando si ha   capito il suo punto di vista. Questo già predispone il   dialogo verso una comprensione reciproca invece che verso una lotta   senza quartiere per avere ragione, verso un conflitto tra voci che   non si ascoltano e quindi, naturalmente, non si capiscono.

Questa inaspettata mossa strategica – simile quella del judoka che   usa la forza dell’avversario a suo favore – ha un “effetto   collaterale” non irrilevante: permette all’interlocutore stesso di   mettere in chiaro le ragioni del suo punto di vista e di verificare   quanto siano più o meno verosimili o fondate. Non sentendosi   più attaccato, ma invitato a spiegarsi, diventa più   disponibile a un incontro.

Ma non è solo nel conflitto che è importante   “parlarsi e capirsi”, lo è anche nella normale routine   quotidiana, nella vita di famiglia, di lavoro, di coppia, di   relazione. Tutto è relazione, la vita stessa è   relazione! Quindi, apprendere ad avvicinarci all’altro con il   rispetto che merita ogni “alterità” diventa il punto di   partenza per instaurare relazioni più armoniose e   collaborative, a tutti i livelli, anche nella società e sul   pianeta. Bastano pochi accorgimenti e molto   allenamento.

La ricetta? Attenzione, ascolto,   rispetto, empatia, dialogo. Tutte tappe che costruiscono il   sentiero che porta alla capacità di uscire dal soliloquio   della propria mente per incontrare davvero l’altro. E’ questo che   si chiama comprensione, è questa la base di un vero   dialogo.

Marcella Danon

Non giudicare
Nessuno ama sentirsi puntare addosso un dito giudicante. Dà senso di inadeguatezza,
può essere fonte di angoscia, inibizione o rabbia. E’ un atteggiamento che mina ogni possibilità di incontro. L’assenza di giudizio è una delle caratteristiche primarie di uno spazio autentico di comunicazione in cui ci si concede reciprocamente di incontrarsi e accettarsi per “ciò che si è”, senza etichettarsi a priori.

Non interpretare
Ogni tentativo di interpretazione tende inevitabilmente a generalizzare e, in un colloquio, allontana da un contatto più autentico con la persona che sta di fronte, trasmette un senso di fraintendimento e
genera facilmente irritazione. Ormai persino dallo psicologo e dal counselor le persone si sentono, giustamente, in diritto di essere ascoltate senza venire inserite in “scatolette preconfezionate”.

Non “leggere nel pensiero”
O non avere la pretesa di farlo, soprattutto. Questo vuol dire non dare per scontato che già si sa cosa l’altro pensa, sente, vuole, o non vuole. L’alternativa è chiedere, verificare, esternare l’eventuale perplessità, per non confondere mal di pancia con atteggiamento di ostilità, timidezza con ostentazione, preoccupazione con fastidio. Ancora una volta vuole dire riconoscere all’altro il suo modo di essere e di
esprimersi.

Non dare soluzioni
Quando qualcuno racconta un suo problema, spesso ha solo bisogno di sfogarsi e di chiarirsi le idee parlandone. Guai a interromperlo, pur se con la migliore delle intenzioni, per fornirgli soluzioni!
Le soluzioni, giustamente, ognuno può trovarsele da solo e il fatto di parlare di quanto sta a cuore è il modo migliore per cominciare. Se vogliamo davvero aiutare chi ha un problema, facciamolo parlare!

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