Cooperazione internazionale

Pietro Bartolo, medico di Lampedusa. Ogni persona ha il dovere di aiutare altri esseri umani in difficoltà

Pietro Bartolo è il medico di Lampedusa dal 1991. Ha curato migliaia di bimbi, donne e uomini sbarcati sull’isola tra gioie e drammi, poi diventati incubi. Niente e nulla, però, gli ha fatto cambiare idea: aiutare gli altri è un dovere, come racconta in questa intervista.

“Dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare. Parlava un’altra lingua, però sapeva amare”, cantava Lucio Dalla in 4/3/1943, un riferimento al periodo della guerra, quando dal mare arrivavano i soldati che spesso vivevano brevi storie d’amore con le giovani donne delle città in cui sbarcavano. “Quell’uomo” oggi passerebbe dalle mani di un altro uomo che gli darebbe una forma d’amore diversa, lo accoglierebbe per curarlo, come fosse un figlio: lui è Pietro Bartolo, medico di Lampedusa dall’inizio degli anni Novanta. La maggior parte degli italiani lo ha conosciuto grazie al film documentario Fuocoammare di Gianfranco Rosi, Orso d’oro al Festival di Berlino nel 2016, dove interpreta se stesso.

Soprattutto, è uno dei protagonisti della storia italiana recente tanto che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano gli ha conferito il titolo di Cavaliere e poi il presidente Sergio Mattarella quello di Commendatore dell’ordine al merito della Repubblica Italiana. Con la giornalista Lidia Tilotta, Bartolo ha cercato di raccogliere parte di questa storia in un libro dal titolo Lacrime di sale, edito da Mondadori.

Dice che era un bell’uomo e veniva, veniva dal mare. Parlava un’altra lingua, però sapeva amare. E quel giorno lui prese a mia madre sopra un bel prato. L’ora più dolce prima di essere ammazzato.4/3/1943 di Lucio Dalla
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Il regista Gianfranco Rosi e il medico di Lampedusa Pietro Bartolo al Festival di Berlino 2016 © Clemens Bilan/Getty Images

Il dottor Bartolo è nato proprio a Lampedusa e dal 1991 si occupa del poliambulatorio dell’isola che si trova nel mezzo del Mediterraneo, sospesa tra Europa e Africa, da tanti, troppi anni. Sono gli anni degli sbarchi di migranti e dei naufragi delle “carrette del mare” prima e dei gommoni poi. Anni in cui ha visto e vissuto qualsiasi cosa. Dalle gioie uniche ai drammi più intensi che si sono impressi in modo indelebile nella sua memoria, come incubi senza fine.

Questa intervista a Bartolo è stata fatta durante una delle tante proiezioni di Fuocoammare organizzate in giro per l’Italia, in questo caso da Emergency, presso l’Infopoint di Roma. Un’intervista intensa quanto lo sono le emozioni di un uomo che non si rassegna e non si abitua. Che spera di diventare presto inutile, che non ci sia più bisogno di lui a Lampedusa e che allo stesso tempo non riesce a costruire uno scudo che lo protegga dalla sua professione fatta di continui momenti emotivamente durissimi. Un uomo di una volta, che non nasconde la paura, ma non si tira indietro – mai – perché sa cosa bisogna fare per non perdere l’umanità.

Da quante persone è composto il personale medico a Lampedusa? E fino a dove arriva la copertura che offrite a queste persone nel momento in cui sbarcano?
Non siamo un grande team, però ce l’abbiamo sempre fatta e credo ce la faremo sempre seppur con grandi sacrifici. Ma spero che tutto questo finisca presto e che non ci sia più bisogno di noi. A occuparci direttamente dei migranti siamo in tre, quattro medici divisi tra la banchina e il piccolo pronto soccorso, anche se poi ci riuniamo sempre alla fine dello sbarco. Finché ci sarà bisogno, noi saremo presenti.

Con questo personale all’attivo, riusciamo a coprire un po’ tutte le esigenze di natura sanitaria. Abbiamo un elicottero di soccorso che usiamo in caso di necessità, per trasferire le persone con patologie più gravi come le ustioni, quella che io chiamo la “malattia dei gommoni” [si veda più avanti per la spiegazione, ndr], le ferite da tortura o i casi gravi di disidratazione in altri ospedali della Sicilia. Per fortuna, però, non sono tutti malati. La maggior parte sono persone sane, che non hanno bisogno di cure. Però è anche vero che a volte ci siamo trovati in una situazione di crisi, come quando ho portato al mio presidio 68 persone dalla banchina con tutte le difficoltà e i disagi del caso.

“È dovere di ogni uomo, che sia un uomo, aiutare queste persone”, ha affermato in Fuocoammare. Chi non le aiuta, o peggio le mette ancor più in difficoltà, come può essere definito?
Sia chiaro, io non condivido il modo di agire di questo governo, ma anche di quello precedente perché la decisione di fare accordi con la Libia per me è scellerata e fa incrementare il numero di campi di concentramento nel paese nordafricano, quelli sono dei veri e propri lager. Io penso che questa sia la strada sbagliata. Ci siamo indignati quando l’Unione europea ha scelto di pagare il governo turco guidato da Recep Tayyip Erdogan per bloccare i migranti siriani ai confini dell’Europa, e adesso noi stiamo facendo anche peggio. C’è una grossa e sostanziale differenza tra la Turchia e la Libia: se nel primo ci sono i campi profughi, nel secondo ci sono i campi di concentramento. Altro che centri d’accoglienza. Posso assicurare che le persone che arrivano a Lampedusa non sembra proprio che arrivino da strutture d’eccellenza. Abbiamo soccorso ragazzi arrivati in condizioni fisiche disastrose, che erano stati sottoposti a violenze e torture, sono arrivati ragazzi in condizioni di deperimento che ci hanno detto di essere stati nutriti con riso condito con olio esausto. Tutto questo succede in Libia che oggi è governata da piccoli gruppi di delinquenti che lucrano sulla pelle di queste persone fino a quando non hanno più niente da sottrarre loro e solo a quel punto li mettono sui gommoni e li fanno morire in mare.

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Pietro Bartolo con un bimbo sbarcato a Lampedusa

Per chi ha una certa sensibilità, oggi si guarda alle politiche del governo italiano verso i migranti come al male assoluto. Però, immagino lei lo saprà meglio di chiunque altro, le stragi di quell’ottobre del 2013 sono frutto di politiche molto simili a quelle di oggi, come documentato all’epoca dal giornalista Fabrizio Gatti. Conferma? E perché secondo lei il nemico oggi sono le ong che stanno evitando proprio tragedie come quelle del 2013?
Per me le ong sono da elogiare, da ammirare perché colmano il vuoto lasciato dall’Europa e dall’Italia. Le persone che operano per queste organizzazioni hanno salvato migliaia e migliaia di altri esseri umani e per questo le ong vanno ringraziate. Io ricordo benissimo la strage di Lampedusa del 3 ottobre 2013 perché ero presente, come sempre, e mi son ritrovato a dover fare centinaia di ispezioni cadaveriche – parliamo di 360 persone, inclusi bambini e donne incinte – vivendo direttamente quel momento di grande dolore. Molte di queste cose mi vengono ancora in sogno, per me sono degli incubi.

Dopo quella strage, l’Italia, con un gesto di grande civiltà, ha messo in campo il 10 ottobre l’operazione straordinaria Mare Nostrum, che poi si è paradossalmente trasformata in qualcosa di negativo. Dal quel momento, infatti, i trafficanti di esseri umani hanno approfittato della presenza delle navi italiane e delle ong nei pressi della costa libica e hanno smesso di comprare e mettere a disposizione dei migranti le cosiddette “carrette del mare”, ovvero le imbarcazioni che avrebbero dovuto attraversare tutto il mar Mediterraneo e che arrivavano a costare decine di migliaia di euro. Su quelle imbarcazioni c’erano anche gli scafisti, per accompagnarli fino a Lampedusa. Quegli stessi trafficanti hanno approfittato di Mare nostrum per iniziare a comprare gommoni di fabbricazione cinese che costano pochissimo e che affondano subito perché a volte non sono nemmeno dei gommoni, sono dei canotti gonfiabili monostadio senza chiglia con a bordo 100, 120 persone. Per cui basta un’onda o un foro per farli affondare. È così che, paradossalmente, sono aumentati i naufragi e sono aumentati i morti.

E da quel momento abbiamo conosciuto una nuova malattia quando già mi sembrava di averne viste di ogni, di patologie legate al viaggio, ma mai nulla di infettivo come spesso si vuole far credere: è la “malattia dei gommoni”. Ovvero ustioni chimiche della pelle da contatto con una miscela che si forma mischiando acqua e benzina. Una miscela subdola, insidiosa. I migranti sono costretti a fare il pieno al motore del gommone più volte con le taniche. Spesso succede che la benzina cade per terra e si mischia con l’acqua. Le donne sono le prime vittime di questa “malattia” perché vengono fatte sedere per terra per proteggerle dal rischio di finire in mare, sbalzate fuori dall’imbarcazione, e quindi sono anche le prime a entrare in contatto con questa miscela mortale o, alla meno peggio, che le deturpa per sempre.

Nel suo libro mi ha colpito il parallelo che fa tra le migrazioni di uccelli nel cielo e quelle delle persone disposte ad attraversare mari e oceani pur di andare a vivere in un posto più accogliente, come fanno gli uccelli d’inverno. Perché per l’uomo migrare, una cosa che in natura è bella e straordinaria (pensiamo alle balene o ai mammiferi che migrano per migliaia di chilometri), non ha lo stesso impatto?
Le migrazioni sono sempre esistite nel mondo animale. Le specie che migrano lo fanno alla ricerca di un territorio migliore, di acqua e di cibo. E anche gli esseri umani lo fanno per lo stesso motivo, per cercare una situazione migliore, più dignitosa. La differenza è che le persone che migrano lo fanno soprattutto per cause determinate da altri esseri umani, siamo noi stessi che li abbiamo messi nelle condizioni di dover migrare. Noi abbiamo portato le guerre, noi li abbiamo colonizzati, poi sfruttati, derubati, schiavizzati, affamati e costretti ad andare via. Eppure non ci sentiamo responsabili di accoglierli, di aiutarli, anzi non li vogliamo! Ma noi abbiamo il dovere – il dovere – di aiutare queste persone perché se noi – noi – stiamo bene è perché abbiamo tolto a loro le risorse.

Sempre nel libro afferma che si arrabbia quando sente la distinzione tra migranti economici e profughi, come se il diritto a migrare ce l’avesse solo chi subisce violenze concrete, mentre chi è povero o addirittura muore di fame (il motivo per cui migrano le altre specie animali, tra l’altro) si meritasse quella sorte. Perché per la politica non c’è spazio per queste persone, secondo lei?
Io questa espressione “migrante economico” la odio. Migrante economico è chi muore di fame, di stenti, di miseria. Io penso che tutti abbiano il diritto ad aspirare a una vita migliore, il richiedente asilo, il rifugiato, chi scappa dalla guerra, ma anche chi scappa dalla fame. Per me non c’è nessuna differenza tra morire di guerra e morire di fame: morire è morire, e basta. Ecco perché quando sento questa distinzione mi arrabbio e mi chiedo come sia possibile farla. Anzi, io personalmente se dovessi scegliere preferirei morire di guerra che di fame. Perché morire di fame significa vivere anni di stenti e di sofferenze immani.

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Pietro Bartolo, medico di Lampedusa e Linosa © Leonardo Casali

Come si dovrebbe reagire, secondo lei, di fronte alla chiusura che stiamo vivendo e alla violenza verbale nei confronti di essere umani in difficoltà?
Certamente dobbiamo ragionare anche con il cuore. Dobbiamo tirar fuori i valori fondamentali e che danno un senso alla nostra vita, come l’accoglienza e la fratellanza, come il rispetto dei diritti umani, il diritto alla vita che abbiamo negato loro. Ultimamente siamo stati bombardati da bugie, false notizie, anzi cattive notizie che non hanno fatto altro che seminare odio, rancore e la lotta tra i poveri che vivono il disagio sociale. Su tutto questo sono state basate intere campagne elettorali e sono state vinte elezioni, perché la gente si spaventa per tutto questo. La gente, infatti, non è cattiva, ma è informata in modo cattivo e reagisce nel modo sbagliato, ma io non do la colpa alle persone comuni, ma ai politici che hanno fatto del fenomeno dell’immigrazione il loro cavallo di battaglia e ai giornalisti, o sedicenti tali, che hanno seminato odio tutti i giorni spaventando e manipolando la gente. E sulla scorta della paura si è giocata l’ultima campagna elettorale.

Leggendo le sue parole e ascoltandola, ho capito che una delle cose più difficili è vivere la quotidianità, alzarsi la mattina con l’incubo costante di rivivere quei momenti. Come fa? Cosa la spinge a non mollare?
In questi 28 anni di grandi sacrifici ci sono stati molti momenti in cui ho avuto dubbi su ciò che stavo facendo, soprattutto quando mi sono trovato costretto a fare le ispezioni cadaveriche, che sono la cosa più brutta, atroce che un uomo possa fare, soprattutto quando mi sono trovato a farle a dei bambini. E allora mi chiedevo: “Perché? Perché io devo vedere, fare tutto questo, perché devo subire tutto questo?”. E lì vengo preso da momenti di grande sconforto, momenti di sofferenza, di dolore. Piango e sto male. Poi vado a casa e mia moglie Rita mi tranquillizza e mi dice che stiamo facendo bene e così ci rifletto e torno a fare quello che ho sempre fatto.

Per fortuna, però, ci sono anche i momenti belli, che ti danno la forza di andare avanti, che ti danno la spinta, come far nascere un bambino oppure quando salvo una persona, quando riesco a fornire aiuto e le persone sono grate per questo. 

C’è un momento in particolare che ricorda per darsi forza, quando la forza le manca?
Mi è capitato di avere la fortuna di scoprire, per puro caso, all’interno di un sacco per cadaveri che all’interno c’era una persona ancora in vita. Mi stavo accertando del decesso e mentre tenevo tra le mani il polso di questa ragazza – per due, tre minuti – ho avuto la fortuna di percepire un leggerissimo battito. Non ci credevo nemmeno. Subito è iniziata la corsa verso il poliambulatorio dove l’abbiamo intubata, le abbiamo dato l’ossigeno e dopo un quarto d’ora è “tornata” in vita. Certo, avevo salvato una sola persona, ma mi sono sentito un “eroe”, anche se penso sempre che le cose vanno fatte perché è giusto farle. Questa persona si chiama Kebrat e dopo tre anni è tornata a trovarmi per ringraziarmi. È venuta dalla Svezia apposta per me, per dirmi: “Dottore, io sono Kebrat, sono la ragazza che lei ha salvato!”, e io che neanche l’ho riconosciuta. Questi sono i momenti che ti danno la forza per andare avanti quando ormai pensi di non potercela fare.

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