Dead Can Dance: misticismo, esotismo e ritorno alla natura

Una retrospettiva per celebrare il sodalizio di Brendan Perry e Lisa Gerrard dei Dead Can Dance, che si avvicinano ai 40 anni di storia con il nuovo album Dionysus e un tour europeo.

Non mi sto muovendo, ma il mio spirito sta ballando. Questa è la sensazione intima e ancestrale che i Dead Can Dance, come pochi altri, suscitano ascoltando la loro musica. In quasi quarant’anni, il polistrumentista Brendan Perry e la cantante Lisa Gerrard hanno realizzato dieci album, si sono sposati e lasciati, hanno pubblicato lavori solisti e vissuto – insieme o separatamente – in Australia, Nuova Zelanda, Inghilterra, Irlanda, Spagna e Francia. Si sono sciolti e poi riuniti. Due anime artistiche inseparabili anche a distanza, due voci antitetiche ma complementari – baritono lui, contralto e mezzosoprano lei – che quasi mai si trovano a duettare, eppure sono in perfetta simbiosi.

 I Dead Can Dance nel 2012
Brendan Perry e Lisa Gerrard dei Dead Can Dance nel 2012

I Dead Can Dance, musicalmente difficili da etichettare, hanno cambiato il proprio stile allontanandosi dai canoni del rock atmosferico e della new wave degli esordi, per configurarsi come una sorta di gruppo mistico di musica globale da camera. Considerati troppo audaci per il mainstream, troppo strani per il mondo della classica, troppo mutevoli per finire sotto la categoria world, sono tuttavia diventati una band culto per un pubblico molto ampio e trasversale.

La loro discografia abbraccia musica liturgica, secolare, neoclassica, barocca, folk, corale, etnica. Attraversa concettualmente l’Europa, il Medio Oriente, l’Africa, l’Asia, il Mediterraneo e l’America Latina. Si ispira non soltanto alle musiche del mondo, ma anche alla passione per la filosofia dell’antica Grecia, per la letteratura francese, la pittura, la natura, il viaggio e la ricerca. Raccoglie le esperienze personali vissute da Perry e Gerrard sui temi dell’amore, della perdita, del dolore e della rinascita.

Strumenti musicali usati in tour dai Dead Can Dance
Strumenti musicali usati nel tour europeo, 2019 © Dead Can Dance

Gli arrangiamenti e l’uso delle voci, in particolare quella femminile, hanno reso le composizioni non lineari dei Dead Can Dance un modello di riferimento per intere generazioni di musicisti rock. Alla tecnica tradizionale, benché ampliata negli anni per un uso orchestrale grazie a fiati (tromboni), percussioni (timpani) e archi (violoncelli e violini), la band anglo-australiana ha sempre anteposto strumenti più rari ed “esotici”, come lo yangqin (cordofono cinese a percussione), la ghironda (cordofono medievale, con le corde sfregate da una ruota), il cimbalom (salterio ungherese, a corde battute o pizzicate) e l’Onde Martenot (tastiera analogica francese). Su di essi, si stagliano le due maestose voci: da un lato il crooning profondo e poetico di Perry, dall’altro gli ipertoni, i gorgheggi eterei e la glossolalia di Gerrard, che canta in una lingua di sua invenzione.

Il primo incontro e l’esordio dark dei Dead Can Dance

Brendan Perry, di padre inglese e madre irlandese, cresce a Londra ma, da adolescente, si trasferisce con la famiglia in Nuova Zelanda. Qui suona il basso e canta in un gruppo punk, con cui si sposta poi in Australia. Nel 1978, folgorato dai testi di Scott Walker e dalle ambientazioni dei Joy Division, si interessa all’elettronica e alle percussioni. A Melbourne conosce Lisa Gerrard che, ancora 17enne, entra a far parte della sua band proprio come percussionista.

Due giovani Lisa Gerrard e Brendan Perry nei primi anni Ottanta © 4AD
Due giovani Lisa Gerrard e Brendan Perry nei primi anni Ottanta © 4AD

Lisa, di madre inglese e padre irlandese, nasce e cresce nel quartiere greco di Melbourne, vivace sobborgo dall’alta densità di abitanti greci e turchi, ma anche arabi, irlandesi e italiani. Nel libro Anywhere Out Of The World: The Unique Vision of Dead Can Dance di Martin Aston, Gerrard racconta di quanto lei percepisse sensuali e commoventi le voci arabeggianti che si udivano dalle finestre del suo quartiere. A dodici anni, Lisa suona la fisarmonica a piano e canta. Durante l’adolescenza si unisce a una band locale influenzata dai Siouxsie and the Banshees, ma nel frattempo già padroneggia lo yangqin trovato in un negozio di beneficenza.

Il primo brano dei neonati Dead Can Dance è la strumentale The Fatal Impact, inclusa su cassetta nella rivista australiana Fast Forward. Lo scarso successo riscosso in patria li spinge a trasferirsi a Londra, nel 1983, nella casa d’infanzia di Perry. Il primo demo registrato è Frontier, pezzo che mette subito in risalto le caratteristiche ibride, ponte ideale tra mondi antichi e moderni, ritmi aborigini e voci spirituali. Il brano esce nel 1984 nell’eponimo debutto discografico della band per la 4AD, etichetta indipendente fondata da Peter Kent e Ivo Watts-Russell, quest’ultimo mentore del dream pop e ideatore del supergruppo This Mortal Coil (in cui sono coinvolti gli stessi Perry e Gerrard, oltre alla cantante Liz Fraser degli scozzesi Cocteau Twins).

Cover del primo album dei Dead Can Dance
Cover del primo album dei Dead Can Dance

La copertina del disco d’esordio raffigura una maschera in legno della Nuova Guinea, che è all’origine del significato Dead Can Dance, come dichiarato all’epoca da Perry: “La maschera, sebbene un tempo sia stata parte vivente di un albero, ora è morta. Ciononostante, attraverso l’arte del suo creatore, è imbevuta di una propria forza vitale. Per capire perché abbiamo scelto questo nome, si può pensare alla trasformazione dall’inanimato all’animato, ai processi di trasformazione che riguardano la vita dalla morte e la morte nella vita”.

La ricerca dei Dead Can Dance, dall’arcaico all’esotico

Nello stesso anno esce il 12″ Garden Of The Arcane Delights, con un suono più raffinato da cui emergono molte delle suggestioni che ne definiscono la futura grandezza. La musica dei Dead Can Dance diventa sempre più epica e rarefatta, anche se non del tutto immediata, con l’introduzione di armonie classicheggianti, contenuti mistici e religiosi, timbriche esotiche.

Traendo ispirazione dal capolavoro letterario I Fiori del Male di Charles Baudelaire, nel 1985 il duo intitola il secondo album Spleen and Ideal, mentre ne riporta due versi nel successivo Within the Realm of a Dying Sun del 1987. Le canzoni parlano di dualismo tra verità e illusione, condizionamento e libertà, dubbio e fede, ricerca della perfezione e frustrazione per il raggiungimento dell’ideale, ma anche di nostalgia per una gloriosa epoca passata. Le chitarre sono ormai ripudiate in favore di una strumentazione di stampo classico, essendo Perry ossessionato da Bach, Benjamin Britten, dalla musica barocca, dai canti gregoriani e dalle colonne sonore di John Barry e Nino Rota.

 

Lisa Gerrard e Brendan Perry ritratti da Vaughan Stedman e Stephanie Füssenich
Lisa Gerrard e Brendan Perry © Vaughan Stedman e Stephanie Füssenich

Altezze spirituali sublimi sono raggiunte con il quarto album, The Serpent’s Egg, del 1988. Un lavoro minimale, giocato su un equilibrio di arrangiamenti e voci che, in ogni traccia, rasenta la perfezione. Il viaggio dei Dead Can Dance sembra prestare maggiore attenzione ai misteri della natura e alle radici folk di Sud America e Africa, evocando sapienza iniziatica e mistero.

Nel 1990 Lisa Gerrard e Brendan Perry sono separati e vivono in due paesi diversi: la prima in Spagna, dopo aver debuttato come attrice nel film El Niño De La Luna (Il Bambino della Luna, la cui colonna sonora è composta dagli stessi DCD), il secondo su una piccola isola irlandese. I due lavorano a una digressione nei suoni medievali e rinascimentali attraverso l’album Aion, che tuttavia risulta il meno coeso del gruppo.

Gerrard nel frattempo torna a vivere in Australia insieme al nuovo marito e alla loro bambina. Eppure, una grande scossa creativa arriva nel 1993, quando esce il disco di maggior richiamo commerciale dei DCD: Into The Labyrinth. Oltre alla tradizione celtica irlandese, emergono sonorità dai sapori tipicamente orientali. Una “fusion” più matura che apre loro molte porte, come quelle del mercato statunitense. L’opener Yulunga (Spirit Dance), che unisce musica aborigena e Medio Oriente, viene trasmessa sul canale del National Geographic per un anno. Il video di The Carnival is Over  va in alta rotazione su Mtv. Perry dichiara che la gente avrebbe ascoltato i DCD anche sulle radio new age e usato la loro musica per la meditazione. Nello stesso anno viene pubblicato Toward The Within, un album live che raccoglie le registrazioni fatte dal vivo durante il tour americano.

Nel 1996 esce Spiritchaser, il disco più discusso e divisivo tra i fan dei Dead Can Dance. Le reminiscenze esotiche, soltanto evocate in precedenza, predominano in tutto l’album attraverso percussioni ed elementi ritmici tribali che collegano virtualmente rituali messicani, haitiani e nordafricani. La forza unificante dietro le otto tracce è, a detta di Perry, “una una ricerca di suoni che trasmettono un senso di animismo, per portare elementi della natura come il canto degli uccelli e quello che suggeriscono il legno (come il rombo usato in apertura, campionato e suonato da Perry con una tastiera, ndr), i serpenti, l’acqua, le atmosfere. Cercare di esprimere una natura animale più che una musica proveniente da un background tecnologico”. Criticato da molti come una produzione debole colpevole di appropriazione culturale, seppur piacevole come sottofondo musicale, di fatto Spiritchaser segna la fine del rapporto artistico di Lisa e Brendan, che comunicano lo scioglimento ufficiale due anni dopo.

Dallo scioglimento alla reunion, alla riscoperta della natura

Siamo nel 2003, Perry ha debuttato come solista in Eye Of The Hunter, mentre Gerrard ha già pubblicato il suo secondo album solista, Duality (il cui brano Sacrifice è nella colonna sonora del film Insider – Dietro la verità, ma in Italia diventa popolarissmo grazie allo spot di Spike Lee per una compagnia telefonica, dove Gandhi parla alla gente con tecnologie moderne), e composto le colonne sonore di film quali Heat – La sfida, Il gladiatore (insieme a Hans Zimmer, col quale vince un Golden Globe e riceve una nomination agli Oscar) e La ragazza delle balene.

Dead Can Dance nel salotto di casa
I Dead Can Dance ci riprovano e si riuniscono nel 2012 per l’uscita di Anastasis

A sopresa, sette anni dopo essersi detti addio, nel 2005 Lisa Gerrard e Brendan Perry ci riprovano. Ma è solo per un tour mondiale di grande successo. Trascorsi altri sette anni, nel 2012 annunciano il tanto inatteso quanto agognato nuovo album, Anastasis (dal greco “Resurrezione”), il primo a 16 anni di distanza da Spiritchaser. Gli aspetti migliori dei loro album anni Ottanta e Novanta, dalle atmosfere cupe a quelle folk, si fondono e attualizzano in un’opera unica, dal suono che si rivela il più massiccio mai prodotto dai DCD. Composizioni come Amnesia, Opium e Return of the She-King lasciano il segno. Un ritorno glorioso, una resurrezione di nome e di fatto. E i morti ballano ancora.

Nel novembre del 2018 arriva Dionysus, un album ispirato al mito di Dioniso, al suo culto e ai suoi riti. Vent’anni prima, Brendan e suo fratello Robert (che suona con i DCD dal 1987) vivono un’esperienza trascendente partecipando a una celebrazione dionisiaca a Calanda, in Spagna. Come raccontato a Rolling Stone, tambureggiano senza sosta dalla sera al mattino insieme a migliaia di altri percussionisti, bevendo vino e mangiando olive che la gente gli porta. Suonano fino a cadere in stato di trance “ignari del dolore, con le mani aperte e i tamburi insanguinati”. I fratelli ripetono l’usanza pagana in altre celebrazioni per la natura e la semina, la primavera e la mietitura lungo tutto il Mediterraneo, dalla Sardegna fino alle montagne bulgare.

Facendo ricerca sulla musica greca, Perry rispolvera i concetti di apollineo e dionisiaco nelle descrizioni di Nietzsche. Controllo e libertà insieme, proprio come il modo di lavorare tra lui e Lisa. “Dioniso è molto legato alla natura e a quelle forze nella natura, nel cosmo, che sono ancora misteriose per noi”, spiega a Pop Matters. “Ma è anche profondamente radicato nelle tradizioni agricole e rurali della gente di campagna. La popolazione mondiale sta diventando sempre più urbanizzata, perdendo il legame con la natura. Questa disconnessione è preoccupante: se continua così, non ci resterà molto del pianeta. Man mano che perdiamo il contatto con la natura e i cicli naturali, perdiamo una parte di noi stessi. Dobbiamo tornare al giardino, come direbbe Joni Mitchell“.

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