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Le acque, gli oceani sono la nostra vita. Eppure ne sappiamo ancora troppo poco. Ecco la sfida del progetto Sunrise: creare una rete di comunicazioni sottomarine che ci permetta di conoscere e proteggere questo delicato habitat.
La Terra è ricoperta per due terzi d’acqua, per questo molte sue parti sono ancora inesplorate. Eppure la nostra vita dipende in gran parte proprio dal mare, dagli oceani e dai bacini d’acqua dolce. Dialogare con il mondo sommerso è fondamentale, così come farlo in modo responsabile. È anche nostro dovere proteggere questo habitat per l’enorme quantità di risorse che custodisce.
In questo contesto è nato e si sta sviluppando il progetto Sunrise, inserito nel VII programma quadro dell’Unione Europea, guidato dall’Università la Sapienza di Roma insieme a una serie di partner sia italiani che internazionali, quali il Nato Sto centre for maritime research and experimentation di La Spezia, l’Isme (Interuniversity center of integrated systems for the marine environment) di Genova e la Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento Sant’Anna di Pisa, Nexse, società italiana di system integration, l’Università di Firenze e l’Università della Calabria, le università olandese e portoghese di Twente e Porto, Suasis (azienda turca) e, la Northeastern University di Boston, cui si sono aggiunte altre realtà grazie al sistema di open call.
Lo scopo è sviluppare una rete per le comunicazioni sottomarine, performante e a basso costo, che consenta una conoscenza più approfondita di questo ambiente, ampliando di conseguenza le nostre capacità di monitoraggio e intervento in ambienti altrimenti preclusi all’essere umano (per esempio faglie, fosse e vulcani sottomarini) o in situazioni di particolare rischio, come tsunami, sversamenti di sostanze inquinanti, operazioni di sminamento e di soccorso in mare. Senza considerare quanto si potrebbe fare per la tutela degli ecosistemi marini e la protezione di siti archeologici sommersi.
La professoressa Chiara Petrioli, coordinatrice del progetto, ha intercettato le esigenze di gruppi di ricerca specializzati in ambito sottomarino, per i quali si rendeva necessario sviluppare una tecnologia di raccolta e scambio di dati affidabile che operasse sott’acqua. Ma è proprio la peculiarità di questo elemento a rendere particolarmente difficile e ambizioso il progetto.
Il primo aspetto critico riguarda le risorse. La ricerca in mare e le attrezzature informatiche necessarie hanno costi molto alti. Si aggiunga un ambiente di trasmissione particolarmente ostico. La possibilità di creare un network di comunicazione efficiente e affidabile, al pari di quello internet realizzato nell’etere grazie alle onde radio (il wi-fi), viene infatti ostacolato dalla natura dell’acqua che non permette uguale velocità di propagazione dei segnali – 100mila volte più lenti che nell’aria – e dalla stessa distanza.
Da qui la decisione di prendere ispirazione dal sistema di comunicazione dei mammiferi marini, basato sulle onde acustiche, per la realizzazione di modem acustici sempre più performanti, in grado di trasmettere su frequenze diverse da quelle di balene e delfini, così da non disturbarli. È stato creato un nuovo concetto di rete introducendo un cambio nei protocolli di comunicazione, nuovi linguaggi e un percorso ottimizzato. Si è cercato di abbattere progressivamente i costi dei droni e dei dispositivi utilizzati in acqua.
Fondamentale per accelerare il processo è stata l’introduzione della multimodalità, che affianca alla comunicazione acustica quella ottica. Mentre la prima consente un flusso di dati limitato (da decine a centinaia di kilobit al secondo), ma su lunghe distanze, la seconda ha una capacità maggiore in termini di megabit al secondo ma su distanze più brevi.
Infine, un ulteriore passo in avanti è stato far comunicare tra loro dispositivi diversi, caratterizzati da sistemi proprietari e modem costruiti da aziende diverse che, in genere, non sono in grado di dialogare tra loro. Così è nato il primo standard di comunicazione acustica sottomarina integrata: Janus, l’esperanto 3.0. Al momento il progetto può contare su una flotta eterogenea di veicoli, una dozzina in tutto, tra droni e robot, sviluppati sia a fini commerciali che di ricerca. Il progetto Sunrise ha anche 4 siti di prova attivi nel mondo: Italia, Portogallo, Paesi Bassi e Turchia. Presto se ne aggiungerà uno nell’oceano Atlantico, di fronte alla costa orientale degli Stati Uniti.
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