Ricordando Ravi Shankar

Si è spento a 92 anni Ravi Shankar che fu l’ambasciatore della cultura e della musica indiana in tutto il mondo. Definito The Godfather of World music da George Harrison, fece conoscere al mondo la magia del sitar.

Ravi
Shankar
sarà ricordato soprattutto per la sua
lunga collaborazione prima con i Beatles e poi con
George Harrison. Iniziata negli anni Sessanta,
portò al grande Concerto per il Bangladesh dell’agosto 1971,
il primo concerto benefico nella storia della musica che fu seguito
da un pubblico di 40.000 persone. Oltrechè sodalizio
artistico, l’amicizia con Harrison portò il maestro Shankar,
nel 1974, in un tour negli Stati Uniti lungo 50 date; mentre il
1997 fu l’anno dell’album a quattro mani Chants of
India
. E anche dopo la morte di George, Ravi non smise di
dimostrare riconoscenza all’amico, partecipando nel 2002 al
concerto tributo Concert for George.

Ma la vita di Ravi Shankar (tutta dedicata all’arte) è
molto, molto di più. Nato nel 1920 a Benares, la
città indiana sacra agli induisti meglio conosciuta come
Varanasi, Ravi Shankar proviene da una famiglia benestante e da
sempre devota all’arte. Gli Shankar erano, infatti, una famiglia di
bramini bengalesi: membri della casta più alta in India,
arrivavano dal Bengala, una zona dell’India orientale che ha dato i
natali a moltissimi poeti, filosofi e cineasti. Il fratello
maggiore è un riconosciuto ballerino e coreografo
(lavorò anche con Anna Pavlova) e molto presto Ravi entra a
far parte del suo corpo di ballo. Insieme a lui inizia a viaggiare
e viene a contatto con l’Europa e l’Occidente, scoprendone il
cinema e la musica classica, ma anche il jazz.

Durante l’adolescenza, però, si avvicina sempre di
più al sitar, capendo di volersi dedicare
completamente alla musica. Terminati gli studi, iniziano le prime
composizioni per balletti e film: in quegli anni scrive colonne
sonore per Satyajit Ray, giovane cineasta
bengalese che diverrà uno dei più grandi autori
cinematografici indiani del Ventesimo secolo. Incide per la casa
discografica inglese HMV con filiale in India e la sua musica
incomincia a varcare i confini indiani: si esibisce alla
Royal Festival Hall in Inghilterra; inizia a
insegnare a musicisti jazz americani come John
Coltrane
(che chiamerà il figlio Ravi in onore del
suo grande maestro) e Don Ellis; registra con il
violinista americano Yehudi Menuhin e con
Philip Glass. E via via, il suo nome incomincia ad
essere conosciuto in tutto il mondo come quello di un grande
ambasciatore della musica.

Dopo aver contribuito a introdurre nuove sonorità in
Revolver, album del 1966 dei
Beatles in cui il sitar compare una delle sue prime
volte, Ravi Shankar sembra quasi il candidato perfetto (a
metà strada fra guru e portavoce) del movimento hippy, che
vedeva nell’India una terra promessa. Per questo motivo viene
invitato a partecipare a Festival come quello di Monterey, in California, e nel 1969 a
Woodstock, insieme a Jimi Hendrix
che, in quell’occasione, incendia la chitarra sul palco. Ravi non
si tira certo indietro ma, negli anni successivi, ammetterà
che non era proprio il suo mondo e che quello di Jimi Hendrix era
stato “il più grande sacrilegio possibile”.

Anche la sua vita privata è stata piuttosto movimentata: tre
mogli, molte fidanzate e un numero ancora più elevato di
amanti. Lui stesso, nella sua autobiografia Raga Mala. La
mia vita, la mia musica
ammette che quando vedeva una
donna appena piacente se ne innamorava e faceva di tutto per
conoscerla, salvo poi pentirsene dato che era fidanzato con altre
due o tre o era già sposato. Da una di queste avventure
occasionali, quella con l’organizzatrice di concerti Sue Jones, nel
1979 è nata Norah Jones, mai riconosciuta,
affermata cantautrice americana.

L’11 dicembre scorso Ravi Shankar si è spento a 92 anni a
San Diego, lasciando una testimonianza straripante così
nella vita come nella musica: 6 corde per noi, 18 per lui…

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