Altro che idrogeologico, quello dell’Italia è un rischio idrogeocementizio

Gli ingegneri naturalistici parlano di “rischio idrogeocementizio” anziché idrogeologico per sottolineare l’incidenza dell’edilizia sulle alluvioni.

  • Basta con il rischio idrogeologico: dopo l’alluvione in Toscana, gli ingegneri naturalistici coniano il neologismo “rischio idrogeocementizio” per sottolineare l’incidenza delle opere edilizie.
  • Le misure per combatterlo sono stop al consumo, opere ingegneristiche a valle e a monte, sensibilizzazione alla prevenzione e alla resilienza.

L’Italia, ormai è acclarato dai danni provocati dalle alluvioni sempre più frequenti, è un Paese a forte rischio idrogeologico. Ma questa stessa definizione rischia di nascondere il vero problema della fragilità del nostro territorio e di spostare le responsabilità dall’essere umano al territorio. È per questo che l’Associazione italiana degli ingegneri naturalisti, dopo l’alluvione di Prato e Campi Bisenzio, propone di chiamarlo rischio idrogeocementizio. Perché? Perché il territorio italiano non è diventato fragile di per sé, ma a causa dell’eccessivo consumo che abbiamo fatto del nostro suolo. “Campi Bisenzio è un comune della piana Firenze-Prato-Pistoia, la zona più urbanizzata della Toscana secondo il rapporto Ispra sul consumo di suolo”, spiega Federico Preti, presidente nazionale dell’associazione degli ingegneri naturalisti e docente di idraulica e difesa de territorio dell’Università degli Studi di Firenze .

“Il nome del paese sta sicuramente a significare campi coltivati attraversati dal fiume Bisenzio. Oggi però abbiamo un corso d’acqua ristretto e rettificato da argini che proteggono importanti infrastrutture produttive”. In pratica: abbiamo imbrigliato, chiuso e inibito un importante corso d’acqua, e la natura ora si è ‘vendicata’.

Che cos’è il rischio idrogeocementizio

Per questo, secondo gli ingegneri naturalisti, rischio idrogeocementizio è il termine più indicato per descrivere la situazione di vulnerabilità del territorio italiano, caratterizzato da un elevato consumo di suolo, una scarsa manutenzione delle opere idrauliche e una crescente frequenza di eventi meteorologici estremi. Il termine deriva dalla combinazione di idrogeologico e cementizio, a indicare in maniera più precisa il rapporto tra le dinamiche naturali dell’acqua e del suolo e le trasformazioni antropiche del paesaggio, spesso realizzate con materiali impermeabili come il cemento.

Non dunque i fenomeni di alluvione, frana, erosione e subsidenza presi per se stessi, e da imputare ovviamente anche ai cambiamenti climatici, ma visti anche come conseguenza della cementificazione. L’ultimo esempio sotto gli occhi di tutti è proprio quello dell’alluvione che ha colpito la Toscana a inizio novembre, causando 17 vittime oltre a circa 500 milioni di euro di danni, di cui 300 solo nel comune di Campi Bisenzio. Eppure, assicura il presidente Prati, “se avessimo ancora avuto il Bisenzio libero di scorrere fra campi coltivati, avremmo avuto 10 o 100 volte meno danni. Ma c’est la vie: lo sviluppo ha portato infrastrutture che valgono di più di un ettaro di terreno o un mancato raccolto…”.

Le misure da prendere per mitigare il rischio

Oltre al neologismo, l’Aipin ha proposto nel post-alluvione anche una serie di misure da adottare per abbatterlo, il rischio idrogeocementizio: la prima è la più banale ma anche la più importante, ossia limitare il consumo di suolo e il degrado ambientale, favorendo la rigenerazione urbana e la valorizzazione delle aree verdi. La seconda è aumentare la capacità di ritenzione e infiltrazione dell’acqua a monte, attraverso la realizzazione di opere di ingegneria naturalistica, come terrazzamenti, fasce tampone, zone umide e bacini di laminazione: “A Campi Bisenzio ha piovuto tanto – ammette Prati – Ma a parità di pioggia l’acqua sarebbe arrivata in minor quantità e in più tempo se fosse stata trattenuta a monte”. La terza misura necessaria è migliorare la manutenzione e l’adeguamento delle opere idrauliche a valle, come argini, canali, casse di espansione e reti fognarie. La quarta riguarda la comunicazione: promuovere la cultura della prevenzione e della resilienza, sensibilizzando i cittadini e le istituzioni sulle buone pratiche da adottare in caso di emergenza idrogeologica.

Negli ultimi mesi Ispra ha pubblicato due report allarmanti: a maggio quello sul dissesto idrogeologico, che afferma che il 93,9 per cento dei comuni italiani (7.423) è a rischio per frane, alluvioni e/o erosione costiera; a ottobre, pochi giorni fa, quello secondo cui il consumo di suolo è cresciuto del 10 per cento rispetto al 2021, con 21 ettari al giorno. Secondo il presidente Prati, i due rapporti sul consumo di suolo e sul dissesto idrogeologico “dovrebbero, insieme, costituire un unico rapporto, quello sul rischio idrogeocementizio. Coniamo questo termine, che è più chiaro ed onesto”. E che inchioda l’essere umano alle proprie responsabilità.

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