
Ha dato il via ai concerti ad alta quota ben 28 anni fa distinguendosi sin dall’inizio per il rispetto delle terre alte. Sancito anche da un manifesto.
Il ritmo leggendario di Tony Allen si è spento il 30 aprile, ma rivive in un brano inedito dei Gorillaz di Damon Albarn e nel ricordo di chi ha lavorato con lui.
È scomparso a Parigi, all’età di settantanove anni, il musicista e compositore nigeriano Tony Allen. Un artista insostituibile, probabilmente “il miglior percussionista mai esistito” per usare le parole di Brian Eno. Il pioniere, insieme a Fela Kuti, dell’afrobeat, avvincente crocevia ritmico tra funk, jazz e musica africana. Ma anche l’umile e instancabile sperimentatore, consapevole delle proprie radici e con lo sguardo sempre rivolto in avanti, pronto ad attirare nuove generazioni e suoni diversi, come dub, elettronica, hip hop e dance.
La perdita di Tony Allen riverbera, tra i moltissimi estimatori, nelle testimonianze di artisti che hanno lavorato con lui negli ultimi anni. L’amicizia ventennale con Damon Albarn, culminata nel mese di marzo a Londra per registrare alcune canzoni, risuona nel brano inedito dei Gorillaz, How far?, pubblicato in sua memoria. L’epigrafe è una frase di Allen che rivela quelli che sarebbero stati i suoi progetti futuri: “Voglio occuparmi dei giovani, hanno delle cose da dire e voglio metterle sul mio ritmo”.
In merito alla registrazione, che parte con una risata del batterista e si sviluppa sui suoi beat con la voce del rapper Skepta, Damon Albarn racconta al Guardian: “Aveva la magia nei suoi piedi e nelle mani, la gioia nel cuore e il genio nella mente”.
Descrivendo Tony Allen come “uno dei più grandi batteristi che abbia mai camminato su questa Terra”, il bassista dei Red Hot Chili Peppers Flea ricorda lo spirito del suo compagno ritmico in un lungo post su instagram: “Che uomo, grande, gentile, dal cuore libero e dal groove inimitabile”, precisando che “Fela Kuti non ha inventato l’afrobeat, Fela e Tony l’hanno creato insieme. Senza Tony Allen non ci sarebbe l’afrobeat”.
Flea e Allen avevano lavorato insieme nel 2012 per Rocket juice & the moon, album omonimo del gruppo formato nel 2008 da Damon Albarn. “Ho avuto la fortuna di passare molte ore con lui, rintanato in uno studio di Londra, a fare jamming per giorni interi. È stato paradisiaco. Era, ed è ancora, il mio eroe”, continua Flea. “Volevo onorare la sua grandezza ed ero nervoso quando abbiamo iniziato, ma mi ha fatto ridere come un bambino di due anni e ci siamo trovati alla perfezione. Mi illuminavo come un albero di Natale ogni volta prima di suonare insieme”.
Allen e Albarn avevano già collaborato con i The Good, the Bad & the Queen, insieme a Paul Simonon dei Clash e Simon Tong dei Verve, prima di formare i Rocket Juice & the Moon con Flea, producendo due album. “Con l’amico e collaboratore musicale di lunga data di Tony, Damon Albarn, suonavamo all’infinito. Abbiamo festeggiato in Nigeria, in giro per l’Europa, sempre uniti dalla musica”.
As a musician & aspiring drummer, it was thrilling to get lost in their new, smart, sexy & political music full of killer grooves. Thank you, Tony. – pg (2/2)https://t.co/f8urjx21gl
— Peter Gabriel (@itspetergabriel) May 1, 2020
Peter Gabriel omaggia Tony Allen (e Fela) su twitter: “Da musicista e aspirante batterista, è stato emozionante perdermi nella loro musica nuova, intelligente, sensuale, politica e piena di groove”.
Negli ultimi tempi, Allen era tornato alle sue radici jazz registrando un album di tributo al suo idolo Art Blakey e unendosi al maestro della techno Jeff Mills per il disco Tomorrow comes the harvest del 2018. Quest’anno aveva pubblicato Rejoice, una collaborazione con il trombettista sudafricano Hugh Masekela scomparso nel 2018.
“Oggi non abbiamo solo perso il più grande batterista di sempre”, ha scritto Mills. “Aveva ritmi e pattern complessi e comunicativi, non ci sono parole per descrivere quello che ha creato. Era di un altro mondo. Era di un altro mondo! Un maestro di musica e di pensiero”.
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Agli antipodi del drumming muscolare, Tony Oladipo Allen aveva una tale classe, compostezza e complessità tecnica nel modo di suonare e improvvisare che sul palco sembrava quasi immobile, pur dettando il ritmo di “quattro batteristi insieme”, come disse Fela quando lo reclutò dopo un’audizione nel 1964.
Nato a Lagos nel 1940, è figlio di un meccanico che non vuole diventi musicista. Ma il diciottenne Tony, dopo aver trovato lavoro come tecnico radiofonico, inizia a suonare i legnetti e poi la batteria in una band locale. L’incontro con Fela Kuti porta alla luce il gruppo Koola Lobitos, che unisce musica africana occidentale (highlife) e jazz, rinominato Africa 70 dopo un viaggio negli Stati Uniti alla scoperta del funk di James Brown e delle Pentere Nere, le quali infiammano il messaggio politico di Fela, ma ne determinano anche diversi arresti e guai con le forze dell’ordine.
Sul finire degli anni Sessanta, il promoter ghanese Raymond Aziz trova il nome per definire l’ibrido musicale di highlife, jazz e funk nei suoni di Fela Kuti e Tony Allen: afrobeat. L’idillio artistico con Fela dura quindici anni, fino al 1978, il tempo di pubblicare quasi quaranta album e influenzare future generazioni di musicisti in tutto il mondo. I contrasti con Fela, sia per il caos ideologico e organizzativo di quest’ultimo sia per il bisogno di Allen di non restare sempre nelle retrovie, lo spingono a formare altre band afrobeat, tra cui gli Afro Messengers, e poi alla carriera solista.
Nel 1984 lascia Lagos per Londra, dove non riesce a ottenere il permesso di soggiorno, e l’anno successivo si trasferisce a Parigi, che invece lo accoglie a braccia aperte fino alla fine dei suoi giorni. Il passaggio tra gli anni Ottanta e Novanta, tuttavia, è un periodo molto difficile per lui. Complice il crescente utilizzo di batterie elettroniche nelle produzioni musicali a scapito di batteristi in carne e ossa, e soprattutto per via di quattro anni di dipendenza dall’eroina da cui, con esemplare forza d’animo, ne esce in una sola settimana.
“La verità è che Tony riusciva a tenere il tempo meglio di qualsiasi drum machine”, spiega a The Wire il suo collaboratore Michael Veal, co-autore dell’autobiografia “Tony Allen: master drummer of afrobeat” pubblicata nel 2013. Come riporta sul New York Times Martin Perna, un altro suo collaboratore e musicista negli Antibalas, “Allen era la personificazione del ritmo. Riusciva a essere più ipnotico lui con tutte quelle variazioni rispetto a un pattern che non cambia mai”.
La morte di Fela nel 1997 e la contestuale rinascita dell’afrobeat come genere musicale di grande interesse segnano gli ultimi venticinque anni di successi di Tony Allen, tra centinaia di concerti e progetti collettivi all’insegna della contaminazione di stili e tradizioni. Dagli artisti africani come il sopracitato Hugh Masekela, Ebo Taylor e Manu Dibango ai produttori elettronici Jeff Mills, Moritz von Oswald, Carl Craig e Jimi Tenor, fino alle collaborazioni più pop con Sebastien Tellier, Charlotte Gainsbourg e Grace Jones.
Il 30 aprile ci ha lasciato un mito della musica, non l’unico di questi tempi ma forse il meno visibile, certamente il meno rumoroso. “Per tutta la vita – scrive Veal – è stato il suo groove potente ma flessibile a mantenere la sua visione chiara, il suo spirito forte e il suo cuore costante, ogni volta che si reinventava. Quel ritmo continuerà inevitabilmente a mettere radici in tutti i continenti del mondo, anche se si è spento nelle mani del maestro”.
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