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Donald Trump ha ratificato l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi. Un duro colpo per il clima, ma anche un’opportunità per accelerare l’azione alla Cop30.
Il 21 gennaio, appena insediatosi alla presidenza per il suo nuovo mandato, Donald Trump ha notificato ufficialmente l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi. Definendo il trattato una “truffa iniqua e unilaterale”, ha giustificato la sua decisione di fronte ai suoi sostenitori entusiasti. Non è la prima volta che accade: già nel 2017, durante il suo primo mandato, Trump aveva preso la stessa decisione.
Questa scelta rappresenta senza dubbio un duro colpo alla cooperazione globale sul clima. Gli Stati Uniti, secondo emettitore mondiale di gas serra dopo la Cina, svolgono un ruolo cruciale nel contrasto ai cambiamenti climatici.
Tuttavia, la loro uscita potrebbe paradossalmente portare anche alcuni risvolti sorprendenti: la presidenza di Trump si è caratterizzata per un marcato ostacolo alla transizione e la sua permanenza nei negoziati internazionali avrebbe ulteriormente compromesso gli sforzi collettivi. Insomma, con gli Stati Uniti fuori dal tavolo, gli altri paesi potrebbero proseguire i lavori senza il rischio di sabotaggi o pressioni per annacquare le misure più ambiziose.
L’Accordo di Parigi, firmato nel 2015 da 196 paesi, rappresenta il primo grande trattato internazionale per contrastare la crisi climatica. Il suo obiettivo è mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto dei 2 gradi rispetto ai livelli preindustriali, puntando idealmente a limitare l’incremento a 1,5 gradi. Superare questa soglia comporterebbe conseguenze disastrose, tra cui ondate di calore più intense, siccità ed eventi meteorologici estremi più frequenti.
I paesi firmatari si sono impegnati a presentare promesse per la riduzione delle emissioni (gli Ndc, nationally determined contributions). Gli Stati Uniti, sotto l’amministrazione Biden, erano rientrati nel trattato internazionale all’inizio del 2021, ma ora con Trump il ritiro diventerà effettivo nel giro di un anno. Gli Usa si troveranno così, insieme a Iran, Libia e Yemen, tra le poche nazioni fuori dal trattato.
Questo però significa che gli Stati Uniti rimarranno formalmente nell’accordo fino a gennaio 2026 e potranno quindi partecipare alla Cop30 di Belém, in Brasile, a novembre 2025. Questo evento sarà fondamentale per la revisione degli Ndc, ma la presenza di una delegazione statunitense sotto la guida di Trump “potrebbe rivelarsi più dannosa che utile”, sostiene Rebekkah Markey-Towler, dottoranda in legge all’università di Melbourne e membro della rete Melbourne climate futures sulla testata statunitense The Conversation.
“Se gli Stati Uniti partecipassero ai negoziati senza un reale impegno climatico, rischierebbero di destabilizzare gli equilibri diplomatici e ostacolare le decisioni più ambiziose”, spiega Markey-Towler, come già avvenuto in passato con l’Arabia Saudita, che alla Cop29 di Baku ha tentato di indebolire il testo finale dei negoziati. “In assenza degli Stati Uniti, invece, gli altri firmatari hanno più probabilità di far avanzare i negoziati”.
Certo, l’uscita degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi non sarà priva di conseguenze negative. Una delle più rilevanti sarà la perdita di trasparenza: Washington non sarà più tenuta a presentare aggiornamenti regolari sulle proprie emissioni, rendendo più difficile monitorare i progressi globali. Inoltre, l’amministrazione Biden aveva stanziato fondi per aiutare i paesi più vulnerabili nella transizione energetica e nell’adattamento climatico, ma con Trump questi contributi potrebbero essere tagliati, aggravando ulteriormente le difficoltà delle nazioni più esposte agli effetti del riscaldamento globale. E poi resta il timore che altri paesi possano seguire l’esempio di Trump: sia la Nuova Zelanda che l’Argentina hanno già espresso l’intenzione di lasciare l’Accordo di Parigi.
Se consideriamo però il lato positivo, il primo ritiro di Trump nel 2017 ebbe un impatto lieve grazie all’impegno di stati, città e aziende americane, che proseguirono con politiche climatiche ambiziose, guidate dal magnate Mike Bloomberg. Lo stesso scenario potrebbe ripetersi oggi: gli investimenti nelle energie rinnovabili stanno già superando quelli nei combustibili fossili e molte amministrazioni locali continueranno ad adottare misure per ridurre le emissioni, a prescindere dalle scelte del governo federale.
Se da un lato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi rappresenta un arretramento nella lotta al cambiamento climatico, dall’altro potrebbe favorire una maggiore coesione tra i restanti firmatari, liberi dall’ostacolo di un’amministrazione negazionista. Il vuoto lasciato da Washington potrebbe essere riempito da altri attori internazionali, come l’Unione europea e la Cina, determinati a guidare la transizione ecologica. Inoltre, questa decisione potrebbe essere facilmente revocata da un futuro presidente più incline all’azione climatica.
L’uscita degli Stati Uniti, dunque, pur avendo ripercussioni negative nel breve termine, potrebbe paradossalmente rafforzare gli sforzi globali, lasciando spazio a chi è davvero impegnato nella lotta al riscaldamento globale. A questo punto, la vera domanda è chi sarà pronto a raccogliere questa sfida.
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