L’amministrazione Usa ha sospeso le domande per l’immigrazione delle persone provenienti da 19 paesi. Nel frattempo vanno avanti le retate nelle città.
Trascurato dalla diplomazia, teatro di crimini di guerra e manipolato dalle potenze regionali, la guerra in Yemen uccide nel silenzio globale.
Oltre 10mila morti, di cui oltre la metà civili, sette milioni e mezzo di persone a rischio, crimini di guerra e bambini malnutriti, in un paese ridotto allo stremo. Eppure del conflitto in Yemen, teatro di una delle peggiori crisi umanitarie al mondo, si parla e si scrive poco. Un conflitto dimenticato, nonostante il paese occupi una posizione strategica, controllando parte dello stretto di Bab el Mandeb nel golfo di Aden, rotta di passaggio per le petroliere di mezzo mondo. E nonostante il paese sia divenuto il dichiarato quartier generale di Aqap, la più potente fazione di Al Qaeda nella penisola araba, responsabile nel gennaio 2015 dell’attacco alla sede parigina del giornale satirico Charlie Hebdo.
Il mondo non sembra interessato nemmeno dal fatto che su questo terreno di scontro si giochi una partita decisiva nella guerra fredda regionale tra Iran e Arabia Saudita. O, ancora, che il pil yemenita, già il paese più povero del Medio Oriente prima dell’inizio della guerra, sia diminuito del 35 per cento, determinando una gravissima crisi economica e sociale.
Ufficialmente, la data di inizio del conflitto risale al marzo 2015, quando gli aerei dell’Arabia Saudita, sostenuti da una coalizione di altri otto paesi arabi, iniziarono a bombardare le postazioni dei ribelli sciiti houthi che, scendendo dal nord verso la capitale Sana’a, avevano conquistato in pochi mesi ampie fette del paese. La crisi tuttavia, affonda le sue radici più in là nel tempo, alle rivolte di piazza che nel 2012 portarono alla caduta dell’allora presidente Ali Abdullah Saleh (alla guida del paese per oltre trent’anni).
Il nuovo presidente Abdel Rabbo Monsour Hadi, sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Egitto oltre che dai paesi del Golfo, non è mai riuscito a prendere del tutto il controllo del paese né ad avviare le riforme promesse, ovvero formare un governo che includesse anche i gruppi che erano stati oppressi o discriminati da Saleh. Dal 2014 in poi gli houthi, appoggiati dall’Iran e frustrati nelle loro richieste di autonomia per il nord del paese, hanno dato il via a una campagna che li ha portati in poche settimane a prendere il controllo della stessa capitale Sana’a. La rapida avanzata dei ribelli, sostenuti da Teheran, ha convinto l’Arabia Saudita ad intervenire militarmente allargando il conflitto ad una vera e propria crisi regionale.
Oggi, a distanza di un anno e mezzo dall’inizio dell’intervento armato guidato da Riad, ma di cui fanno parte anche gli stati del Golfo, la Giordania, l’Egitto, il Marocco e il Sudan, è ormai chiaro che la Decisive storm (Tempesta decisiva) — questo il nome dell’operazione — non abbia portando alla rapida vittoria sperata. La coalizione che aveva annunciato una ‘guerra lampo’ si trova invischiata in un conflitto lungo, complicato e costoso mentre da più parti le autorità del Regno sono sotto accusa per le vittime civili nei bombardamenti. In diverse occasioni le Nazioni Unite ha denunciato ambo le parti in guerra per ripetute violazione del diritto umanitario, ma è documentato che la stragrande maggioranza delle vittime civili è causata dai raid aerei.
A peggiorare la situazione, il fatto che il protrarsi della guerra, sta di fatto rafforzando sul terreno la presenza di diversi gruppi armati dalle agende diverse e in conflitto tra loro: oltre ad al-Qaida nella penisola araba (Aqap) e Ansar al-Sharia, lo Stato islamico e le numerose tribù separatiste del sud del paese. Una conseguenza involontaria, anche se prevedibile, che preoccupa i principali fornitori di armi dell’Arabia Saudita: Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia.
Sul fronte diplomatico, i colloqui di pace — che finora non hanno prodotto risultati concreti — procedono a rilento, mentre la comunità internazionale, Europa in primis, si mostra restia ad esercitare pressioni. Da un lato si rischierebbe di scontentare il governo saudita, dall’altro l’opinione pubblica sembra disinteressarsi ad una crisi che, a differenza di quella in Siria, non ha spinto ondate di profughi sui confini dell’Europa.
Finora intanto, circa 170mila persone hanno abbandonato lo Yemen, dirette soprattutto verso Gibuti, Etiopia, Somalia e Sudan. La maggior parte non sono yemeniti ma profughi di ritorno e cittadini stranieri. Le Nazioni Unite prevedono che altrettante lasceranno il paese entro l’anno. La guerra ha provocato danni devastanti per 26 milioni di yemeniti, che faticano a sopravvivere in un paese già afflitto, prima del conflitto, da povertà, una grave carenza d’acqua, e da una cattiva gestione politica. Stime prudenti delle Nazioni Unite parlano di seimila persone uccise, metà delle quali civili, 320mila bambini di meno di cinque anni gravemente malnutriti e di quattro civili su cinque in disperato bisogno di aiuti umanitari per sopravvivere. Gli sfollati interni sono oltre 2 milioni e mezzo.
With bombing of Yemen funeral, even more clear: US, UK, others should immediately suspend arms sales to Saudis https://t.co/cKCZsRN9ID pic.twitter.com/2HYSWZx6UJ
— Andrew Stroehlein (@astroehlein) 13 ottobre 2016
A pagare per le violenze e lo stallo nelle trattative è soprattutto la popolazione. Anche a settembre si è registrato un aumento di attacchi contro obiettivi non militari tra cui strutture sanitarie, scuole, mercati, luoghi di culto, aeroporti e abitazioni. Tre ospedali di Medici Senza frontiere sono finiti nel mirino dei cacciabombardieri negli ultimi mesi.
YEMEN: Saudi-led funeral attack apparent war crime says @hrw https://t.co/B4LnNdl4e3 pic.twitter.com/1R88OyYX8c
— Conflict News (@Conflicts) 13 ottobre 2016
Lo scorso 8 ottobre, un bombardamento aereo su un funerale a Sana’a ha provocato almeno 140 vittime e 525 feriti. Dopo aver inizialmente negato ogni responsabilità, la coalizione araba ha dichiarato di essere pronta ad indagare sulle circostanze dell’attacco.Dal canto loro, anche gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno reso noto di voler fare luce sulla strage riesaminando, in caso, il sostegno all’alleanza. Washington e Londra hanno dichiarato che non sono più disposte a “concedere un assegno in bianco sulla sicurezza” al loro alleato nel golfo Persico. Ai civili sotto scacco non resta che attendere e confidare in un cambio di rotta, sperando che la fine del conflitto ricompaia, presto o tardi, nell’agenda delle potenze internazionali.
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