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Mezzo secolo di canzoni africane, registrate tra il 1920 e il 1970 ma inaccessibili, vede la luce nel progetto Beating Heart che sostiene le comunità subsahariane.
Un archivio di oltre 35.000 canzoni africane, registrate tra il 1920 e il 1970 dall’etnomusicologo britannico Hugh Tracey, da oggi è finalmente accessibile. Il progetto Beating Heart, nato per preservare la musica africana per le future generazioni, ha reso disponibili le antiche registrazioni a produttori e dj di tutto il mondo per realizzare una serie di album in chiave contemporanea a scopo benefico.
Per valorizzare l’eredità musicale del continente africano, l’organizzazione Beating Heart ha scoperchiato il tesoro sonoro di tradizioni secolari custodito per 50 anni dall’International library of African Music (ILAM), l’archivio fondato nel 1954 dallo stesso Hugh Tracey. Musicisti di fama internazionale hanno quindi iniziato a remixare le canzoni africane originali, dando vita a nuove composizioni per la pubblicazione di 18 dischi, ognuno dei quali incentrato su un paese o un luogo di indagine degli studi di Tracey. Il primo LP, acquistabile qui, riscopre i suoni del Malawi attraverso l’abilità di artisti come Luke Vibert, Throwing Shade della talentuosa Nabihah Iqbal, i malawiani Drew Moyo e Sonye e l’italiano Cristiano Crisci che, con lo pseudonimo Clap! Clap!, ha già conquistato il cuore e la produzione di Paul Simon.
Nel 1921, l’allora 18enne Tracey partì dall’Inghilterra per lavorare nelle piantagioni di tabacco del fratello vicino Chivhu, nello Zimbabwe, e farsi una vita come molti altri bianchi nell’Africa coloniale. Presto, però, la sua passione per la musica africana lo portò su una strada completamente diversa, che percorse per tutta la vita. Ammaliato dalla cultura africana e dalle sue sonorità così ritmiche e percussive, Tracey iniziò a viaggiare, a incidere, collezionare e catalogare tutta la musica delle popolazioni dell’Africa subsahariana.
Beating Heart restituisce l’immenso lavoro di Hugh Tracey, in modo attuale, a sostegno delle comunità locali. “Gran parte delle registrazioni sono state fatte negli anni Cinquanta – spiega uno dei fondatori, Chris Pedley – ma quasi tutte le persone che hanno suonato e contribuito alle canzoni sono decedute. La loro musica non è mai stata sentita prima e nessuno la conosce”. Un modo per tramandare la loro cultura tradizionale, dunque, ma anche per rendere quanto ricevuto: i proventi degli album sono destinati interamente ai villaggi e alle comunità indigene in cui vennero incise le canzoni originali. “La vendita di sole 1500 copie – dice Pedley – aiuterebbe a sfamare per sempre una scuola di 500 bambini”.
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