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Negli ultimi venti anni, i casi di anoressia e di bulimia sono aumentati in maniera esponenziale: un problema che ha radici profonde nella storia personale e nelle caratteristiche della società
Le patologie alimentari, come afferma Richard A. Gordon, uno dei maggiori studiosi dell’anoressia e bulimia, possono essere considerate come l’espressione di un “disturbo etnico”, cioè di una malattia che riflette le problematiche, le angosce e le contraddizioni della società alla quale le pazienti (si tratta, infatti, di un disturbo prevalentemente femminile) appartengono.
L’elevata incidenza di tali condizioni nelle società contemporanee sembra essere legata ad un gran numero di fattori interdipendenti tra loro: il cambiamento del ruolo sociale delle donne, le crescenti difficoltà nel passare dall’adolescenza all’età adulta, l’importanza attribuita alla bellezza fisica e, paradossalmente, l’aura di fascino creata dai media attorno al fenomeno.
La pratica del quasi digiuno (anoressia), o quella delle abbuffate seguite da severe condotte per eliminare il cibo col vomito o con i lassativi (bulimia), costituiscono un vero attentato alla salute e persino alla vita.
Chi soffre di “mal di cibo”è solitamente una giovane donna che lotta con un profondo senso di inadeguatezza e disperazione e che ha trovato nell’annientamento del corpo l’unico mezzo attraverso il quale nascondere, ma al tempo stesso ostentare, il proprio dolore.
Dietro una facciata di sicurezza, arroganza e disprezzo per ciò che è necessario all’essere umano, si nasconde il segreto delle ore trascorse pensando al cibo, alla bilancia, alla paura di essere scoperte e a quella di crescere, ma soprattutto, al terrore di non essere mai sufficientemente all’altezza di un mondo tanto complesso come il nostro.
Il corpo diventa il nemico dichiarato, da rinnegare e controllare senza sosta, trasformandosi in un luogo nel quale punirsi per i propri errori e attraverso il quale ribellarsi a regole e aspettative personali e sociali che è impossibile soddisfare.
Perché lo fanno? I pareri sono divergenti, resta comunque il fatto che l’appello semplicistico al “culto della magrezza” risulta insufficiente.
Il rifiuto del nutrimento è il rifiuto della natura, dei riti sociali, dell'”essere umani” con tutti i limiti e i pregi che questo comporta e richiede, quindi, un’attenzione ed un intervento a più livelli che sappia così farsi carico della complessità del fenomeno.
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