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Balla Coulibaly, giovane profugo del Mali, è il protagonista dell’installazione immersiva creata da Fabio Weik per gli spazi di Ride Milano.
Il mare non è soltanto una distesa d’acqua. Per gli abitanti delle isole è casa, per i pescatori è vita, per i viaggiatori è pace. Il mare può avere tanti significati. L’urban artist Fabio Weik, nato a Milano nel 1984, l’ha scelto per simboleggiare la disinformazione che spesso, dinanzi a tematiche delicate come l’immigrazione o il coronavirus, ci troviamo costretti ad affrontare. Le notizie false, incomplete, forzatamente negative solo “perché va di moda” non fanno altro che creare smarrimento e confusione, alimentando dentro di noi paura e diffidenza. Sentimenti che anche il giovane profugo Balla Coulibaly ha sperimentato davanti all’immensità del mare. “Al buio non avevo paura. Ma quando è arrivata l’alba, quando ho visto quanto era grande il mare di fronte a me, che ero completamente solo, mi sono spaventato”.
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A raccontarci la storia del 23enne originario della Repubblica del Mali è proprio Fabio Weik, il quale ha deciso di dedicare al ragazzo la continuazione del percorso iniziato con Ermeneutica chapter I. “Balla è un ragazzo del Mali che ha deciso di attraversare il deserto con la speranza di arrivare in Libia e trovare chissà quale ricchezza, chissà quale bellezza, e invece si è trovato nel bel mezzo di una guerra. L’hanno arrestato praticamente subito, imprigionato, torturato fin quando non è riuscito a partire di nuovo, a bordo di un gommone, alla volta dell’Italia”, ci svela Weik. -Balla!- è anche il titolo dell’opera, un gioco di parole fra il nome di Coulibaly e le notizie riguardanti la movida circolanti durante la pandemia, con le discoteche chiuse.
Visivamente l’installazione, realizzata per gli spazi di Ride Milano in collaborazione con il musicista Boss Doms, il fotoreporter Francesco Brembati e la curatrice Valentina Bizzotto, si presenta come un accumulo di coperte isotermiche sospese, le stesse che vengono date ai migranti quando toccano la terra ferma: un serpente dorato che si snoda per la lunghezza dello spazio espositivo sino alla sua origine, una proiezione di pochi secondi del volto del protagonista. In un’altra stanza si può ascoltare Coulibaly, che lentamente si sta integrando nella realtà milanese, mentre spiega cosa vogliono dire per lui termini come “casa”, “smart working”, e come sta vivendo la situazione attuale in cui spesso i migranti sono accusati di favorire la diffusione della Covid-19.
Fondamentali sono le note che accompagnano l’intera installazione: “La musica è ottenuta campionando i suoni del mare e dei motoscafi per produrre un pezzo techno che descrive un po’ il viaggio. Un viaggio che ha una ritmica molto serrata, che crea dell’ansia, come quello che ha vissuto Balla. Non puoi mai stare fermo, arrivi in un posto e cerchi di uscirne vivo, tutto è molto frenetico”, chiarisce Fabio Weik. A completare l’immersione sensoriale i rimandi a figure mitologiche legate al mondo del mare, come il dio Nettuno e la ninfa Galatea.
Ancora una volta Weik, esponente della Tdk crew e dell’Interplay crew di cui è il fondatore, si dimostra abile nel rappresentare la società odierna sfruttando i mezzi contemporanei dell’arte visiva e le nuove tecniche sperimentali, senza rinunciare all’identità underground che ha caratterizzato la sua produzione sin da quando si è imposto sulla scena come graffiti writer. Oltre alla città di Milano nel suo cuore c’è quella di Dubai, dove ha vissuto alcuni anni e dove tuttora si reca occasionalmente per lavoro. Una megalopoli complicata, in cui luci e ombre si alternano continuamente: si dice che dietro allo skyline scintillante ci sia la sofferenza dei clandestini sottopagati che hanno costruito quei grattacieli, che dietro allo sfarzo si celi il degrado. Una dicotomia che Weik conferma essere tangibile.
“Dubai è acerba dal punto di vista socio-culturale, quasi ermetica” – racconta –. Penso che per un artista sia utile avere anche input negativi e uno sguardo su fenomeni come il consumismo sfrenato”. A noi spetta il compito di cogliere l’invito a non fermarci alla superficie, bensì avere il coraggio di tuffarci nel mare delle informazioni che ci circondano e nuotare in profondità, per scovare storie autentiche come quella di Balla Coulibaly.
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