Bracconaggio in Italia. Quando la caccia diventa strage

Il bracconaggio in Italia è un’emergenza costante, una piaga che mette a dura prova intere popolazioni. I pochi volontari aiutati dalle forze dell’ordine riescono a fare ben poco. Siamo tra i primi esportatori di bracconieri in tutta l’Europa dell’Est.

Ore 7, del mattino. Ormai non serve più puntare la sveglia perché l’autunno è arrivato. E in campagna, in autunno, la sveglia è rappresentata dagli spari dei fucili. La domenica poi è un tripudio di colpi, a pochi passi dalle abitazioni. In Lombardia, Veneto, Toscana, e più giù in Sardegna, Calabria, Sicilia. Solo per citare alcuni dei punti caldi dello stivale. Il 2 settembre scorso si è aperta una nuova stagione nella maggior parte delle regioni italiane, quella della caccia.

“Non passa giornata in cui non si esca a fare vigilanza e in cui non vengano denunciati cacciatori, con porto d’armi e licenza di caccia regolari”. A parlare è Antonio Delle Monache, coordinatore regionale delle guardie volontarie venatorie del Wwf, che in Lombardia affiancano i Carabinieri forestali e le guardie provinciali nel presidio del territorio. “Proprio in questi giorni è arrivato in uno dei nostri centri di recupero per la fauna selvatica un gufo reale preso a fucilate, e almeno un’altra ventina di rapaci, dal falco pellegrino, alle poiane ai gheppi”. Si spara a qualsiasi cosa abbia le ali, anche alle piccole pispole, ai fringuelli, ai migliarini di palude.

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Tordo boccaccio con richiamo elettronico sequestrato dai Carabinieri forestali © Lipu

I numeri non sono certi: secondo i dati dell’Istat i cacciatori in Italia sono circa 700mila, in calo comunque rispetto a qualche anno fa, quando la cifra era tre volte tanto. Non tutti i cacciatori, però, sono anche bracconieri, cioè chi spara a specie protette o comunque che non si possono cacciare, per motivi deliberati. “Esiste ancora una grossa fetta di cacciatori, proveniente soprattutto dalle province di Brescia e Bergamo, che intendono la caccia come uno strumento per sparare a qualsiasi tipo di uccello, non importa se sia vietata o meno. Una caccia arcaica, fuori dal tempo”, spiega Della Monache. “Si tratta di uscire, andare in campagna e sparare a quello che passa”.

Bracconaggio in Italia, ogni settimana migliaia gli uccelli uccisi

Non passa settimana in cui non venga riportata una notizia di un sequestro o di una denuncia. Segno che il fenomeno è lungi dall’arrestarsi e segno che i Carabinieri forestali e i volontari delle associazioni ambientaliste che presidiano il territorio svolgono un ruolo fondamentale per contrastare il bracconaggio in Italia. La più eclatante è quella di qualche settimana fa: l’operazione Pettirosso ha coinvolto oltre 50 militari, ha portato alla denuncia per oltre cento persone nel bresciano e al sequestro di 56 fucili, quasi 1.300 dispositivi di cattura illegale e oltre 2.600 uccelli di cui solo 216 vivi. Oltre a 6.900 munizioni e 30 metri di reti. “Il fatto è che si possono muovere tranquillamente in tutta le regione e risulta difficilissimo intercettarli. Sono estremamente organizzati e conoscono come e dove nascondere trappole e prede”, racconta Delle Monache.

Ad essere colpiti non sono solo i passeriformi, ma anche specie più grandi, particolarmente protette, che non finirebbero nei ristoranti bresciani o bergamaschi. Come l’esemplare di capovaccaio ucciso lo scorso 9 settembre a Mazara del Vallo. Si trattava di una femmina nata in cattività nell’ambito del progetto Life Egyptian vulture, finalizzato alla conservazione del capovaccaio e sviluppato in Italia e alle isole Canarie, in Spagna, grazie al co-finanziamento dell’Unione europea. “Questo animale, specie particolarmente protetta, faceva parte di un progetto di reintroduzione della specie in Italia, dove è fortemente in pericolo”, racconta Giovanni Albarella, della Lipu, la Lega italiana per la protezione degli uccelli. “L’uccisione quindi non rappresenta ‘solo’ l’abbattimento di un animale protetto, ma costituisce anche un forte pregiudizio per la riuscita del progetto e quindi per la ripresa della popolazione nidificante in Italia”.

I cacciatori dediti al bracconaggio non hanno confini

I bracconieri migrano, come le specie che cacciano. In gergo viene chiamato turismo venatorio: veri e propri tour organizzati in tutti i dettagli – trasporto e alloggio compreso – nelle aree a più alta densità: Calabria, Sicilia, ma anche Slovenia, Romania, Bulgaria, Bosnia. “Pochi mesi fa è stato fermato un carico con oltre duemila uccelli protetti provenienti dalle foreste dell’Europa orientale”, continua Dalle Monache. “I cacciatori vanno lì e fanno piazza pulita per alimentare il mercato ristorazione”.

Sembra incredibile, ma lo spiedo fa parte ancora della dieta degli abitanti di Lombardia e Veneto. “Lo scorso gennaio è stata scoperta nel cosentino una vera e propria organizzazione dedita al turismo venatorio per cacciatori provenienti dall’Italia settentrionale. Nel corso dell’operazione di polizia sono stati sequestrati più di tremila uccelli protetti che sarebbero stati poi inviati al Nord per la solita preparazione dei piatti tipici”, racconta Albarella.

“A Reggio Calabria, ad opera dei Carabinieri forestali, è stata smantellata una rete di bracconieri che avevano creato una vera e propria associazione a delinquere finalizzata alla cattura e alla commercializzazione di uccelli, soprattutto fringillidi, da destinare al mercato illegale per la preparazione di piatti gastronomici e al mercato abusivo di richiami vivi a Malta”.

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I lacci utilizzati per catturare illegalmente molti passeriformi e fringillidi © Lipu

Il triste primato del Sud

Ma è probabilmente la Sicilia il territorio con la più alta incidenza delle attività di bracconaggio. Lo stretto di Messina e l’isola in generale sono l’ultima stazione di rifugio e riposo per molti uccelli migratori, prima del grande salto attraverso il sud del Mediterraneo o verso nord, verso il cuore d’Europa. Ancora oggi nel famosissimo Ballarò, a Palermo, si vendono tranquillamente i cardellini, mentre al mercato tradizionale di Favara si possono trovare le varietà più disparate. Ma sono le organizzazioni criminali a far registrare i danni maggiori.

“C’è una vera e propria organizzazione criminale dedita al bracconaggio dei rapaci”, racconta Ennio Bonfanti, decennale guardia volontaria di Caltanissetta. “La Sicilia è un vero e proprio forziere dove rubare i falconi e alimentare il mercato nero dei rapaci. I ricavi illeciti portano ad altissimi guadagni. Un singolo esemplare può costare anche 20mila euro”. Anche in questo caso i gruppi sono estremamente organizzati e le forze dell’ordine spesso troppo poche.

“Noi volontari cerchiamo di contrastare il fenomeno durante la stagione riproduttiva, da marzo in poi. È nato un gruppo spontaneo con volontari di tutte le fasce d’età ed estrazione sociale che si piazza fisicamente sotto le montagne 24 ore al giorno per proteggere i nidi e fare da deterrente”, continua Bonfanti. “Un lavoro massacrante”. Ma come è possibile che specie di elevato pregio naturalistico, protette e soprattutto ancora vive possano uscire dai confini nazionali? Semplice, basta falsificare i certificati di nascita. Le leggi internazionali prevedono infatti la possibilità di vendere ed acquistare esemplari protetti purché siano nati in cattività. Basta un anellino e un allevatore compiacente e il gioco è fatto. Decine di falchi che partono verso i paesi arabi e il medio oriente pagati a caro prezzo per alimentare quello che risulta essere ancora oggi uno status symbol.

È nato un gruppo spontaneo con volontari di tutte le fasce d’età ed estrazione sociale che si piazza fisicamente sotto le montagne 24 ore al giorno per proteggere i nidi e fare da deterrenteEnnio Bonfanti, guardia volontaria

Un lavoro pericoloso quello dei volontari, fatto di minacce e ritorsioni. “L’anno scorso ci siamo ritrovati in un bosco lontano dalle provinciali e senza copertura telefonica, faccia a faccia con un bracconiere armato e coperto da passamontagna, che è riuscito ad eludere i controlli”, racconta Bonfanti. “Certo siamo addestrati anche a situazioni di questo tipo, sappiamo che può capitare. Nel 2010 hanno dato fuoco alla mia automobile, quando già facevo questo tipo di servizio”. I volontari, seppur pubblici ufficiali, non possono operare a “sorpresa”, devono far conoscere all’ufficio venatorio competente il giorno, il luogo, l’orario esatto del controllo, la targa e il tipo di veicolo. Va da sé che la fuga di notizie è dietro l’angolo. “Praticamente dobbiamo far sapere le nostre mosse almeno un mese prima. Dall’alto ci vogliono talmente bene che vogliono sapere esattamente dove andiamo”, conclude ironico.

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I punti caldi del bracconaggio in Italia

Sono almeno sette le zone calde, gli hotspot del paese, definite dal piano d’azione nazionale per il contrasto contro gli uccelli selvatici redatto dal ministero dell’Ambiente.

  • Prealpi lombardo-venete, dove c’è una una fortissima presenza di bracconaggio diretto soprattutto ai passeriformi, pettirossi in particolare, che nel periodo autunnale passano attraverso i valichi alpini durante la migrazione verso in quartieri di svernamento. Gli uccelli vengono catturati con reti e trappole per essere destinati al consumo gastronomico privato o commercializzati illegalmente per il consumo gastronomico in ristoranti per la preparazione del piatto tipico “polenta e osei”. Inoltre nell’area è diffusissima la pratica dell’utilizzo dei richiami elettromagnetici (vietati dalla legge) nell’esercizio della comune attività venatoria.
  • Delta del Po, dove l’abbattimento di uccelli acquatici avviene con mezzi non consentiti, soprattutto con l’utilizzo di richiami elettronici e fari, caccia notturna. Qui gli animali sono utilizzati per consumo gastronomico personale o abbattuti per puro divertimento.
  • Le coste e zone umide pugliesi: in questo blackspot si verificano tre tipi di bracconaggio: uno diretto all’abbattimento degli uccelli acquatici (anatre in particolar modo) mediante utilizzo di richiami elettronici, fari per attirare gli uccelli, armi clandestine e modificate. Un altro diretto all’abbattimento delle quaglie durante il periodo della migrazione post riproduttiva (da settembre in poi) con massiccio utilizzo di richiami elettronici. Il terzo diretto alla cattura con reti su larga scala di allodole che sono destinate al commercio illegale di richiami vivi.
  • Le coste pontino-campane, dove si verificano più tipi di bracconaggio. Quello relativo al periodo primaverile ed esercitato principalmente sulle isole tirreniche (Ischia, Procida, Capri, Ponza, Palmarola). C’è quello rivolto agli uccelli acquatici lungo il litorale Domitio, qui sono stati creati decine di laghetti abusivi con veri e propri appostamenti per attirare l’avifauna acquatica, gli animali sono utilizzati per consumo gastronomico personale o abbattuti per puro divertimento. Le violazioni, commesse riguardano l’utilizzo di richiami elettronici, caccia in orari notturni, abbattimento di specie protette, utilizzo di armi modificate, caccia in periodo di divieto. Il periodo interessato va da ottobre ad aprile. In tutta l’area del napoletano e del casertano è inoltre diffusissima la pratica della cattura di fringillidi, soprattutto la specie cardellino, da destinare al commercio illegale quale animale ornamentale.
  • Stretto di Messina, dove transitano migliaia di rapaci durante la fase migratoria e centinaia di cicogne nel loro viaggio verso i quartieri di riproduzione nel centro e nord Europa e verso i quartieri di svernamento in Africa. Su entrambi i versanti dello Stretto c’è l’antica tradizione di sparare al falco pecchiaiolo (in dialetto adorno) per puro divertimento. In Calabria c’è ancora la credenza che l’abbattimento del falco pecchiaiolo possa assicurare la fedeltà coniugale per quell’anno.
  • Sicilia occidentale, caratterizzata dall’abbattimento di rapaci durante la migrazione autunnale. Qui diversi rapaci sostano prima di intraprendere la traversata del canale di Sicilia in direzione delle coste africane.
  • Basso Sulcis dove c’è una lunghissima tradizione di cattura di turdidi con trappole posizionate nella folta macchia mediterranea, recentemente anche con reti, finalizzata alla commercializzazione illegale per la preparazione di un piatto tipico denominato “Su Pilloi de Taccua”. Nel periodo tardo autunnale e nel periodo iniziale della migrazione primaverile migliaia di tordi frequentano la macchia mediterranea del Basso Sulcis, qui i bracconieri posizionano trappole e reti per la cattura, sempre in questa zona è diffuso anche l’utilizzo di lacci per la cattura di cinghiali e del raro cervo sardo. Nella zona di Molentargius invece vengono catturati con reti, nel periodo invernale, gli storni che utilizzano i canneti della zona umida come dormitorio notturno.

Il reato di natura non esiste

“Ci sono dei territori dove il bracconaggio è una piaga devastante. Lo vediamo dove attiviamo attività di conservazione e dove vengono uccisi esemplari votati alla ripopolazione, con danni enormi alla comunità”, spiega Isabella Pratesi, direttrice del programma di conservazione del Wwf. “Forse l’aspetto meno conosciuto del bracconaggio è proprio quello che prevede la raccolta dei pulli e delle uova dei rapaci, mosso soprattutto dalla falconeria. Si tratta di un tipo di bracconaggio dal grande giro economico, gestito dalla criminalità organizzata”.

Una piaga in costante crescita dovuta principalmente alla mancanza di adeguate sanzioni e ad una fragilità culturale ancora troppo diffusa. “L’impianto sanzionatorio è molto labile, tutti i reati previsti dalla legge 157/92 sono contravvenzionali e quindi con pene non adeguate ad avere un efficace effetto deterrente”, spiega Albarella. “Proprio perché reati contravvenzionali, non è possibile ricorrere a strumenti investigativi adeguati [come le intercettazioni, ndr] a meno che non siano affiancati ad altri reati più gravi. A seguito della recente riforma della pubblica amministrazione, le polizie provinciali e delle città metropolitane, che insieme ai carabinieri forestali, rappresentano uno dei principali organi di controllo sul territorio, sono state fortemente ridimensionate e l’attività di controllo in materia venatoria non viene più regolarmente svolta o comunque legata alla stipula di convenzioni con la regione di appartenenza, convenzioni che in molte realtà stentano a decollare”.

Ci sono dei territori dove il bracconaggio è una piaga devastanteIsabella Pratesi, Wwf

Spesso col reato di bracconaggio, un reato di natura e per natura, non si arriva nemmeno al penale. “Nel 2015 è stato introdotto nel Codice penale (art. 131 bis) l’istituto della non punibilità per particolare tenuità del fatto per il quale non si procede in sede penale per pene detentive che non siano superiori ai cinque anni, poiché tutti i reati previsti dalla legge 157/92 non superano questo limite, sono stati registrati vari casi di applicazione della tenuità del fatto in episodi di bracconaggio. C’è bisogno che le persone capiscano il valore della fauna selvatica”, conclude Pratesi. “Perché se questo valore non è conosciuto e non sufficientemente protetto, gli italiani e la società civile continueranno ad ignorarlo. Dovremmo insegnarlo nelle scuole, per essere capito e custodito”. Per cambiare il destino di migliaia di uccelli e molte altre specie, non basta la legge. Serve cambiare la mentalità delle persone. Dovrebbe essere la comunità a denunciare chi attenta alla biodiversità e alla conservazione. Perché è il sottile equilibrio ecologico al quale le specie selvatiche concorrono, a permettere la sopravvivenza di Homo sapiens.

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