Otto grandi mostre in giro per l’Italia, ma non solo, per un autunno all’insegna dell’arte in ogni sua forma: pittura, scultura e performance.
Perché Bernardo Caprotti nel testamento lascia il suo quadro più prezioso al Louvre e non a Milano
Non smettono di riservare sorprese e suscitare dibattiti le disposizioni testamentarie di Bernardo Caprotti, il noto imprenditore lombardo fondatore dell’Esselunga la cui recente scomparsa ha galvanizzato i riflettori della cronaca per via dell’inconsueta decisione di destinare ben 75 milioni della cospicua eredità all’infaticabile segretaria-assistente Germana Chiodi. Ma dalla lettura delle ultime volontà del defunto, ormai
Non smettono di riservare sorprese e suscitare dibattiti le disposizioni testamentarie di Bernardo Caprotti, il noto imprenditore lombardo fondatore dell’Esselunga la cui recente scomparsa ha galvanizzato i riflettori della cronaca per via dell’inconsueta decisione di destinare ben 75 milioni della cospicua eredità all’infaticabile segretaria-assistente Germana Chiodi.
Ma dalla lettura delle ultime volontà del defunto, ormai pubblicate integralmente o a stralci sui siti di numerosi quotidiani nazionali (come ad esempio il Sole 24 Ore), trapelano dettagli ancor più clamorosi e densi di significato, soprattutto grazie alla dovizia di pensieri e riflessioni attraverso le quali il de cuius ritiene di dover argomentare o rendere più comprensibili alcune attribuzioni o scelte patrimoniali.
Tra una stoccata e l’altra – contro le cooperative rosse, il “paese cattolico che non tollera il successo” e anche verso due dei propri stessi figli – dal documento emergono anche le tracce di un contenzioso aspro e mai risolto tra l’interessato e le istituzioni del mondo artistico-culturale milanese.
“Avendo donato alla Pinacoteca ambrosiana un dipinto di scuola leonardesca di possibile grande interesse ed ingente valore – scrive Caprotti nel testamento – ed avendo da ciò ottenuto una esperienza molto negativa, fino al dileggio da parte degli studiosi ed esperti dell’istituzione medesima, segnatamente, Monsignor Buzzi e tale Marani, cancello le donazioni previste alla Galleria di arte moderna della città di Milano. Lascio al Museo del Louvre, Parigi, l’olio di Manet (Manet d’après Titien) ‘La Vergine col coniglio bianco’, con l’onere che venga esposto accanto al Tiziano originale”.
Sebbene l’attuale direttrice della Gam abbia già smentito a mezzo stampa l’esistenza di trattative pregresse con l’imprenditore circa eventuali donazioni in favore della galleria milanese, il regolamento di conti, severo ed esplicito ancorché postumo, è passato tutt’altro che inosservato, con tutto il prevedibile corollario di polemiche che ne è scaturito.
Un’omonimia che evoca il più chiacchierato degli amori leonardeschi
Il “dipinto di scuola leonardesca” al quale allude Caprotti suscitò, all’epoca della sua collocazione all’Ambrosiana, ovvero tre anni fa, una vivacissima risonanza mediatica, poiché la “Testa di Cristo” in esso ritratta corrispondeva inequivocabilmente alle fattezze del pittore Gian Giacomo Caprotti, meglio noto come “il Salaì” (Saladino, ovvero diavolo), allievo prediletto nonché probabilissimo amante di Leonardo da Vinci che ripetutamente lo immortalò senza perdere occasione di sottolinearne il carattere infido ed ispido.
Quando nel 2007 il patron dell’Esselunga acquistò l’opera ad un’asta newyorkese di Sotheby’s, per poi commissionarne il restauro e in seguito la donazione alla Pinacoteca colma di preziose testimonianze leonardesche, la stampa ribattezzò prontamente il dipinto come “il Caprotti di Caprotti”, citando il titolo della monografia pubblicata per l’occasione da Marsilio che evocava la singolare omonimia.
Spulciando le cronache dell’epoca, più che nel “dileggio” denunciato dall’imprenditore brianzolo, si ha l’impressione di trovarsi dinanzi ad una semplice querelle scientifica sull’attribuzione del ritratto, che i collaboratori di Caprotti ritenevano di poter verosimilmente ricondurre alla mano di Leonardo da Vinci in persona, mentre i leonardisti Maria Teresa Fiorio, Pietro Marani e Giulio Bora lo reputavano unanimemente classificabile come il primo dipinto ascrivibile con certezza a Gian Giacomo Caprotti alias Salaì.
L’ipotesi che infine prevalse, ovvero quella di un autoritratto realizzato dal Salaì, annetteva dunque un’importanza ugualmente decisiva all’opera in questione.
Un Manet da affiancare a Tiziano
La disposizione relativa al dipinto a olio di Manet da donare al Louvre appare perfettamente in tono col resto del testamento di Caprotti che tende a disciplinare, con una serie di indicazioni talvolta minuziose e dettagliatissime, tutti gli aspetti relativi alla successione, ivi compreso addirittura lo svolgimento del funerale dell’interessato (ora, tragitto del feretro ecc).
In una così spiccata propensione al controllo, l’autore, oltre ad indicare nominativamente quali singole opere d’arte (da De Chirico a Zandomeneghi e altri) debbano essere assegnate a ciascuno dei parenti, dispone che il Louvre, nel ricevere la “Vergine col coniglio bianco” di Manet debba essere obbligato a situare il lascito accanto all’opera di Tiziano in esso copiata.
Una collocazione nient’affatto peregrina, se consideriamo che Manet si recava personalmente al Louvre a studiare i capolavori dei grandi maestri e in particolare di Tiziano, (la cui Venere di Urbino costituì peraltro il modello dal quale trasse la sua celeberrima Olympia).
Il punto è che però in genere nei musei la disposizione delle opere muta in funzione degli allestimenti e dei percorsi espositivi, e normalmente compete a chi per lavoro concepisce e progetta le mostre.
O, seguendo Caprotti, vogliamo invece insinuare che, ad esempio, “Las Meninas” di Picasso debba essere affiancato sempre e comunque all’originale di Velasquez che lo ha ispirato? Sarà dunque interessante vedere come i conservatori del Louvre gestiranno il lascito e quale sarà la loro reazione al diktat del donatore.
Intanto l’intera vicenda Caprotti può suscitare svariate riflessioni in merito al rapporto tra arte e capitale. Ad esempio può sottolineare come i cosiddetti “ricchi”, o almeno una certa schiera di rappresentanti della categoria, invece di circoscrivere i propri orizzonti alla ricerca di locali alla moda, non solo non snobbano i musei, ma spesso e volentieri li creano, li finanziano o – come nel caso specifico – li riforniscono di opere.
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