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In tre anni di guerra, le bombe russe hanno distrutto almeno due milioni di abitazioni. La mostra “Dakh: Vernacular Hardcore” allestita al Padiglione Ucraina racconta l’emergenza quotidiana e il desiderio di rinascita.
Almeno due milioni di case distrutte. Oltre 1.600 ospedali danneggiati e 3.300 scuole rase al suolo. Sono i numeri, parziali e destinati a crescere, della devastazione causata dall’invasione russa in Ucraina. Una devastazione che continua, aggravata dal massiccio bombardamento russo che tra il 24 e il 25 maggio ha causato almeno dodici morti. E al quale l’Ucraina ha risposto con pesanti attacchi con droni alle città russe.
Secondo la Kyiv School of Economics, da febbraio 2022 a novembre 2024 la guerra ha distrutto una quantità di infrastrutture dal valore di 170 miliardi di dollari. Una cifra che non considera né i danni provocati, a partire dal 2014, dal conflitto quasi decennale tra le forze governative ucraine e i separatisti filorussi nelle regioni orientali di Luhansk e Donetsk, né il 29 per cento del pil andato in fumo a seguito dell’invasione su larga scala.
Ma distruzione significa anche ricostruzione, perché la vita deve andare avanti e rincorrere la normalità. Anche in un momento in cui di normale non è rimasto più nulla.
Ed è proprio la ricostruzione uno dei temi scelti quest’anno dal padiglione Ucraina alla Biennale di architettura di Venezia. Che fino al 23 novembre 2025 presenta al pubblico la mostra “Dakh: vernacular hardcore”.
“Non si tratta solo di bombardamenti. È la vita quotidiana che si è interrotta. Arrivi in una città e ti sembra che la vita vada avanti, ma in realtà è un’esistenza spezzata. Ogni gesto quotidiano diventa faticosissimo, anche accedere all’acqua”. Evgenia Belorusets è una fotografa, scrittrice e artista ucraina.
Si commuove, come si commuove molta gente attorno a lei durante il discorso inaugurale dell’esposizione allestita al Padiglione Ucraina e curata da Bogdana Kosmina, Michał Murawski e Kateryna Rusetska. Da oltre dieci anni Belorusets racconta le fratture invisibili che attraversano il tessuto sociale del suo Paese: con le sue fotografie ha raccontato la vita delle operaie, degli abitanti dei villaggi poveri dell’Ucraina occidentale, dei rom perseguitati e dei membri della comunità Lgbtq+. Oggi alcuni dei suoi più recenti scatti sono esposti alla Biennale di Venezia, nella sezione “Places: Mykolaiv Region” (I luoghi della regione di Mykolaiv) del Padiglione Ucraina. E raccontano il duro lavoro che gli addetti alla gestione delle reti idriche fanno quotidianamente per mantenere attivo il flusso d’acqua negli impianti devastati dagli attacchi russi.
“A Mykolaiv il sistema idrico è in stato di emergenza costante – ha raccontato Evgenia Belorusets a LifeGate -. Ogni giorno si rompe e ogni giorno si prova a ripararlo. Si lavora giorno e notte. E non si può mai smettere, perché la vita della città dipende da questo. Ormai le persone devono andare a prendere l’acqua potabile alle stazioni di filtraggio, che funzionano solo se c’è elettricità. Ma quando salta la luce, la città resta completamente senz’acqua.”
Ci sono tante persone vulnerabili anche in tempo di pace: provate a immaginare cosa vuol dire per loro la guerra! Gli anziani non riescono nemmeno a portarsi l’acqua a casa. E a volte muoiono, semplicemente perché non ce la fanno più.
Se i servizi idrici alimentano la vita dal basso, i tetti delle case la proteggono dall’alto, dagli attacchi dei droni e dai bombardamenti. Ma quando piovono le bombe, i tetti sono i primi a crollare e sono tra le prime cose che dunque bisogna ricostruire. Perché la vita deve andare avanti, e un tetto sopra la testa è il primo passo per rincorrere la normalità.
“Per le persone rimaste nei villaggi sulla linea del fronte, molte delle quali anziane e quindi particolarmente vulnerabili, le riparazioni delle abitazioni sono essenziali”, ha detto al Financial Times Matthias Schmale, rappresentante delle Nazioni unite e coordinatore umanitario in Ucraina.
Per questo il cuore dell’esposizione allestita alla Biennale di Venezia è per l’appunto il tetto: “dakh”, in ucraino. La forma più basilare dell’architettura, che offre riparo dagli elementi esterni e protegge la vita anche in tempo di guerra.
“Abbiamo scelto il tetto come elemento simbolico di questa mostra. In tante culture europee il tetto di paglia in passato era qualcosa di molto comune, e noi lo consideriamo un elemento che unifica le culture”, ha spiegato a LifeGate Bogdana Kosmina, curatrice del Padiglione Ucraina, che ha curato anche i materiali d’archivio dell’“Atlante delle abitazioni tradizionali ucraine dalla fine del XIX alla metà del XX secolo”: una ricerca monumentale, durata cinquant’anni, e condotta da tre generazioni di donne architette: da Bogdana Kosmina, da sua mamma Oksana e da sua nonna Tamara. Questa parte di esposizione mette a confronto l’architettura tradizionale dei villaggi ucraini con le forme di ricostruzione auto-organizzata che nascono per necessità in tempo di guerra.
“Oggi in Ucraina esistono due tipi di architettura vernacolare: quella tradizionale e quella d’emergenza – ha spiegato Bogdana Kosmina a LifeGate -. Entrambe raccontano la capacità di ricostruire, anche senza supporti governativi ma solo grazie al cuore, alla responsabilità e all’amore delle comunità locali”.
Tuttavia ricostruire sta diventando sempre più complicato, perché alcuni degli elementi più vulnerabili ai bombardamenti, come i vetri delle finestre, sono sempre più difficili da reperire in Ucraina: prima della guerra infatti arrivavano prevalentemente dalla Russia e dalla Bielorussia. Ora invece devono essere importati da altri Paesi europei, con costi molto più elevati. Altrettanto elevati sono i costi per la riparazione dei tetti: circa duemila euro, secondo le stime dell’organizzazione di volontariato Livyj Bereh, che ha ricostruito circa 400 tetti in tutta l’Ucraina. “Se il tetto è danneggiato, è solo questione di tempo prima che l’intera struttura inizi a crollare”, ha spiegato Ihor Okuniev, che fa parte dell’organizzazione.
Secondo le Nazioni Unite, nel 2024 i gruppi umanitari hanno supportato più di 114mila persone in Ucraina con “riparazioni leggere e medie di appartamenti o case”. Riparazioni che il più delle volte hanno vita breve: fino al bombardamento successivo.
“Ci sono organizzazioni che hanno provato a ricostruire le case tre o quattro volte, ma ogni volta vengono di nuovo buttate giù. Nonostante ciò, si continua a ricostruire”, ha raccontato a LifeGate la curatrice del padiglione Ucraina Bogdana Kosmina. “A Mykolaiv, invece, nel sud del Paese, non si può nemmeno iniziare a ricostruire perché i bombardamenti sono continui”.
Proprio per dare l’idea dell’angoscia che ormai da tre anni accompagna gli abitanti delle regioni interessate dalla guerra, nel padiglione Ucraina è stata allestita un’installazione sonora immersiva che riproduce il rumore dei droni.
“L’arte serve per raccontare queste storie che spesso non vengono raccontate”, ha detto a LifeGate l’artista Evgenia Belorusets. Storie che a Venezia prendono forma attraverso i documenti e le immagini che testimoniano i paesaggi vernacolari d’emergenza nati in tempo di guerra nelle regioni di Chernihiv, Kyiv, Kharkiv, Sumy e Zaporizhzhia.
“Certo, non bisogna sopravvalutare il potere dell’arte: sicuramente non è vendendo una fotografia o vincendo un premio che cambierà qualcosa. Quello che serve davvero è fermare la guerra e ricostruire l’Ucraina. Ma se chi lavora ogni giorno per tenere in piedi il Paese si rende conto che c’è chi lo ascolta, chi conosce la sua storia, allora forse troverà un po’ più di forza per andare avanti. Ed esporre qui a Venezia è importante per raccontare quello che succede. La verità, però, è che tante persone in Ucraina continuano a vivere in un’emergenza che non fa notizia”.
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