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Su come doveva e su com’è stata introdotta in pratica in Italia la tassa europea sulle Transazioni finanziarie (la Tobin tax) se ne discute da tempo. Da un lato c’è la lobby di chi ne ha osteggiato il lancio, dall’altro c’è il gruppo di chi critica i difetti della formulazione limitata. La tassa italiana
Su come doveva e su com’è stata introdotta in pratica in Italia la tassa europea sulle Transazioni finanziarie (la Tobin tax) se ne discute da tempo. Da un lato c’è la lobby di chi ne ha osteggiato il lancio, dall’altro c’è il gruppo di chi critica i difetti della formulazione limitata.
La tassa italiana italiana, oltre a prevedere una serie di esclusioni, non è applicata sulla singola transazione ma sui saldi giornalieri e non interessa la grande massa dei derivati più speculativi (che rappresenterebbero il 65 per cento del gettito), ma solo quelli che hanno come sottostante le azioni, né ai titoli di Stato. Ma che cosa succederebbe se fosse applicata in senso ampio?
Una tassa con ampia base imponibile, ovvero applicata alla più ampia gamma di strumenti finanziari (secondo l’impianto della direttiva proposta dalla Commissione europea), con il ricorso al doppio principio di tassazione (di residenza dell’operatore e di nazionalità del titolo) e con aliquote dello 0,1 per cento per le azioni e dello 0,01 per cento per i derivati porterebbe nelle casse dello Stato dai 3 miliardi ai 6 miliardi di euro all’anno. La cifra emerge da un recente studio pubblicato da uno dei più autorevoli istituti di ricerca economica tedeschi, The German institute for economic research (DIW Berlin).
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