Diritti umani

Il genocidio demografico e culturale degli uiguri in Cina

La minoranza islamica degli uiguri convive con la repressione violenta delle autorità cinesi, tra sterilizzazioni, campi di rieducazione e lavori forzati.

Una tragedia che va avanti da diversi anni, ma che solo ultimamente sta facendo parlare di sé. È quella della minoranza turcofona islamica degli uiguri, che abita la regione nord-occidentale cinese dello Xinjiang. Strumentalizzando le spinte secessioniste locali e l’attività terroristica messa in atto da alcuni piccoli gruppi jihadisti, le autorità di Pechino hanno lanciato una vasta operazione repressiva che ha investito tutta la popolazione musulmana locale. Lo Xinjiang è considerato strategico dal governo cinese ed è per questo che per mantenere la tranquillità nell’area si è deciso, di fatto, di cancellare l’identità e l’etnia uigura. Sterilizzazioni, campi di rieducazione, sorveglianza di massa, lavori forzati sono solo alcune delle modalità con cui la Cina sta soffocando la vita di milioni di uiguri. Spesso, con la connivenza internazionale.

Chi sono gli uiguri

Gli uiguri sono uno dei 56 gruppi etnici riconosciuti dal partito Comunista cinese. Di religione islamica sunnita, abitano la regione autonoma nord-occidentale dello Xinjiang e si compongono di circa 12 milioni di persone. Un tempo erano l’etnia maggioritaria dell’area, poi Pechino ha iniziato a incoraggiare l’insediamento di contadini del gruppo maggioritario etnico cinese Han e il primato uiguro è venuto meno.

La regione dello Xinjiang, abitata dalla minoranza degli uiguri
La regione dello Xinjiang, abitata dalla minoranza degli uiguri © Britannica

Il “problema uiguro”, quanto meno nella visione cinese, ha origine dalle spinte secessioniste che ci sono state dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Sull’onda della formazione delle nazioni indipendenti dell’area caucasica, anche i musulmani dello Xinjiang hanno cominciato a chiedere con sempre più insistenza l’indipendenza e questo ha portato a una crescita della tensione con Pechino. Le autorità cinesi considerano l’area come fondamentale da un punto di vista economico e geopolitico, tanto per le risorse energetiche di cui è ricca, quanto per la sua posizione naturale di sbocco sul medio-oriente e sull’Asia centrale. 

Nel tempo ci sono stati scontri inter-etnici nello Xinjiang, mentre si sono formate anche cellule terroristiche uigure come il Movimento islamico del Turkestan orientale, responsabile di alcuni attentati. Nel 2015 la Cina ha dato il via a una vasta operazione nello Xinjiang contro gli sparuti gruppi jihadisti, che in breve però si è trasformato in un programma più ad ampio raggio. L’antiterrorismo è solo il cappello con cui Pechino ha messo in atto un processo di sinizzazione della regione, che passa dalla de-islamizzazione della popolazione locale e dunque, di fatto, dalla cancellazione dell’etnia uigura. Un modus operandi che per lungo tempo è passato sotto silenzio grazie alla censura cinese, ma che negli ultimi due anni è finito sotto i riflettori delle organizzazioni per i diritti umani.

La guerra all’Islam e i campi di rieducazione

Lo Xinjiang si è trasformato da qualche tempo in uno stato di polizia. Diverse inchieste hanno sottolineato che chi entra nell’area subisce l’installazione sui propri smartphone di applicazioni per controllare la navigazione, mentre un po’ ovunque si trovano telecamere a riconoscimento facciale. Le intercettazioni telefoniche sono la normalità. L’obiettivo dichiarato dalle autorità cinesi è quello dell’anti-terrorismo, in realtà a subire queste attività non sono solo eventuali sospetti jihadisti ma tutta la popolazione islamica locale. La sorveglianza di massa è il primo gradino dell’interferenza totale di Pechino sulle vite degli uiguri, volta non soltanto a tenerli sotto controllo ma anche e soprattutto a snaturarne l’identità.

La vita degli uiguri nella regione cinese dello Xinjiang
La vita degli uiguri nella regione cinese dello Xinjiang © Kevin Frayer/Getty Images

Negli ultimi anni migliaia di moschee nello Xinjiang sono state abbattute e se fino al 2017 se ne contavano circa 24mila, ora il loro numero si assesta intorno alle 15mila. Il problema starebbe nella loro architettura araba troppo lontana dagli usi e costumi cinesi, in realtà il motivo della distruzione sta nella volontà di privare gli uiguri dei loro centri confessionali, così da favorire il loro allontanamento dalla religione islamica. Al di là delle moschee, a subire la mano censoria del governo sono poi tutti quegli altri aspetti della quotidianità che in qualche modo identificano la presenza uigura sul territorio, come scritte e insegne in arabo.

Ma la mano dura di Pechino nella regione non avviene solo in questo modo indiretto. Diverse inchieste hanno infatti rivelato l’esistenza di veri e propri centri di detenzione e rieducazione, dove sarebbero rinchiusi circa un milione di uiguri sottoposti a un quotidiano lavaggio del cervello, con cui portarli alla definitiva de-islamizzazione e conseguente sinizzazione. Il governo parla di luoghi di riabilitazione dei terroristi, le sempre più numerose testimonianze che stanno venendo allo scoperto delineano invece uno scenario di incarceramento, lavori forzati nei campi di cotone e indottrinamento sulla cultura cinese a cui sono sottoposti i cittadini uiguri, senza distinzione di fedina penale.

Il genocidio demografico

Se la Cina sta cercando di cancellare la cultura, gli usi e i costumi uiguri attraverso la repressione e l’indottrinamento delle persone appartenenti a questa etnia, il suo lavoro è orientato anche al futuro. Pechino infatti ha tra le sue strategie per risolvere il “problema uiguro” quella di ridurre sempre più le nascite all’interno di questa etnia, così da farla estinguere da sola. Una pratica che secondo la Convenzione per la prevenzione e punizione del crimine di genocidio del 1948 costituisce “genocidio demografico”, come sottolineano sempre più esperti.

La vita degli uiguri nella regione cinese dello Xinjiang
La vita degli uiguri nella regione cinese dello Xinjiang © Kevin Frayer/Getty Images

In questi anni le autorità cinesi si sono lanciate in un programma di riduzione forzata della nascite uigure attraverso sterilizzazioni di massa, imposizione di metodi contraccettivi e aborti indotti. Alle donne vengono applicate spirali intrauterine impossibili da rimuovere se non attraverso operazione chirurgica, o vengono obbligate ad assumere per via orale o tramite iniezione altri tipi di contraccettivi. Inoltre, diverse testimonianze raccontano di donne incinte che una volta in ospedale per i controlli di routine sarebbero state obbligate ad abortire. Infine, ci sarebbero anche casi di neonati uccisi.

Come sottolinea l’antropologo Adrian Zenz, il numero di donne dello Xinjiang sterilizzate è passato dallo 0,4 per mille del 2016 al 2,5 per mille del 2018. Inoltre, negli ultimi anni il tasso di natalità nella regione è crollato drasticamente. Fino al 2015 tra la popolazione uigura si registrava il maggior numero di nascite nel paese, con circa 22 nascite ogni mille abitanti. Un numero che nel 2018 è sceso a otto. 

Le reazioni internazionali

Negli ultimi giorni alla Casa Bianca l’amministrazione di Donald Trump ha alzato la voce sul tema degli uiguri. “La Repubblica popolare cinese, sotto la direzione e il controllo del partito Comunista, ha commesso un genocidio contro gli uiguri prevalentemente musulmani e altri gruppi minoritari etnici e religiosi nello Xinjiang”, ha tuonato l’ormai ex segretario di Stato Mike Pompeo. Un duro attacco a Pechino che ha trovato già d’accordo Antony Blinken, suo successore nella nuova amministrazione di Joe Biden.

Quella americana è una presa di posizione importante, che contribuisce ad accendere ulteriormente i riflettori su una vicenda che lentamente inizia a essere conosciuta nel mondo. Negli ultimi due anni si erano fatti sentire l’Unione Europea, per voce dell’Alta Rappresentante Federica Mogherini, così come diversi stati per voce dei rispettivi ambasciatori, con una lettera alle Nazioni unite per condannare il trattamento della minoranza uigura. Ma fino a ora a prevalere sono comunque stati gli interessi economici con la Cina, con le condanne rimaste sulla carta mentre si stringevano nuovi accordi commerciali. Un fatto ancor più evidente nelle relazioni bilaterali tra Pechino e una parte dei paesi del Medio oriente, che nonostante la comunanza religiosa con gli uiguri hanno sempre preso le parti di Pechino, partner considerato troppo importante.

 

Questo emerge soprattutto per la Turchia, terra di origine degli uiguri. Il presidente Recep Erdogan mantiene un atteggiamento ambiguo sul tema: se fino a poco tempo fa ha più volte preso le difese della minoranza turcofona, chiedendo chiarimenti a Pechino sul loro trattamento e accusando il modus operandi delle autorità cinesi, ultimamente le cose sono cambiate. “Tutti i popoli e le etnie nel Xinjiang vivono felicemente”, ha dichiarato il presidente turco in un incontro con il suo omologo cinese, un dietrofront che avviene proprio mentre cresce la partnership commerciale tra i due paesi sulla nuova Via della seta. A rimetterci ancora una volta i 12 milioni di uiguri dello Xinjiang, troppo poco importanti economicamente per meritare di essere salvati dal genocidio demografico e culturale in corso.

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