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L’Italia perde posizioni nel Climate change performance index, l’indice che misura gli sforzi contro la crisi climatica. Ora è al 26esimo posto. Ma sul podio, non c’è nessuno.
Proprio mentre il Parlamento approva definitivamente il decreto Clima e a Madrid il ministro dell’Ambiente Sergio Costa si mostra in prima fila a sostenere la necessità di porre un freno immediato al surriscaldamento globale alla Cop 25, il Climate change performance index (Ccpi), un rapporto realizzato da Germanwatch, Climate action network (Can) e dal New climate institute, in collaborazione con Legambiente, manda un messaggio chiarissimo: le azioni messe in campo dall’Italia per fronteggiare la crisi climatica non sono sufficienti e appaiono inadeguate a dare piena attuazione agli obiettivi di lungo termine fissati nell’Accordo di Parigi.
Passi indietro dell’Italia sulle performance climatiche: scende al 26° posto nella classifica stilata da @Germanwatch @CANEurope e @Legambiente per l’Italia presentata alla #COP25.
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— Legambiente Onlus (@Legambiente) December 10, 2019
Lo studio ordina in una classifica, dalla più virtuosa alla più inquinante, le nazioni che insieme rappresentano circa il 90 per cento delle emissioni globali, sulla base del Ccpi che si basa per il 40 per cento sul trend delle emissioni, per il 20 per cento sullo sviluppo sia delle rinnovabili che dell’efficienza energetica e per il restante 20 per cento sulla politica climatica.
L’Italia, che due anni fa era sedicesima e l’anno scorso 23sima, quest’anno è scesa al 26esimo posto. La buona notizia, secondo il rapporto, è che in questo ultimo anno l’Italia ha realizzato una piccola riduzione delle emissioni (-1 per cento).
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La performance negativa è invece dovuta principalmente al rallentamento dello sviluppo delle rinnovabili (29esima posizione) e a una politica climatica nazionale inadeguata agli obiettivi di Parigi. La bozza del Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) consente una riduzione delle emissioni al 2030 di appena il 37 per cento: troppo poco per i redattori del report, e un passo indietro anche rispetto alla Strategia energetica nazionale (Sen) adottata nel dicembre 2017 che fissava un obiettivo del 42 per cento.
Today’s worry list about the EU at #COP25: 1⃣EU representatives didn’t show up in the Higher Ambition Coalition presser at #COP25 2⃣ DE?? & ES ??didn’t mention Paris compatible targets for the EU 3⃣ None of them confirmed the EU’s willingness to increase its NDC in early 2020 pic.twitter.com/bzrC2uK0Gh — CAN EUROPE (@CANEurope) December 10, 2019
È, nel complesso, l’intera Unione europea, purtroppo, a fare quest’anno un notevole passo indietro, posizionandosi al 22esimo posto come entità politica globale rispetto al 16esimo dello scorso anno, a causa della scarsa efficacia delle singole politiche nazionali che rischiano di compromettere il raggiungimento degli obiettivi al 2030 per clima ed energia. Infatti, secondo le recenti proiezioni dell’Agenzia europea dell’ambiente, il trend di riduzione delle emissioni al 2030 è di appena il 36 per cento, inferiore all’obiettivo attuale del 40 per cento, che già sarebbe inadeguato secondo Legambiente, che punta almeno al 65 per cento.
Rapporto #CCPI2020 di @Germanwatch @CANEurope @EZanchini: “Nel piano clima italiano non si va oltre una prospettiva di riduzione delle emissioni del 37%, con una proiezione al 2050 del 64%. Siamo al di sotto delle possibilità del nostro Paese” ▶️https://t.co/YkAkVpZYIf pic.twitter.com/ZoNkjoatIX — Legambiente Onlus (@Legambiente) December 10, 2019
Secondo Edoardo Zanchini, vicepresidente di Legambiente, “l’Italia può e deve fare la sua parte nella lotta alla crisi climatica, ma serve un drastico cambio di passo rispetto al Piano nazionale integrato energia e clima proposto dal governo. Nel piano italiano non si va oltre una prospettiva di riduzione delle emissioni di appena il 37 per cento, con una proiezione al 2050 del 64 per cento. Obiettivo ben al di sotto delle possibilità del nostro Paese, come abbiamo recentemente dimostrato presentando una roadmap che consentirebbe di anticipare la completa decarbonizzazione della nostra economia entro il 2040”.
Ma chi c’è sul podio di questa speciale classifica? Nessuno. In maniera simbolica, infatti, il rapporto non attribuisce medaglie a nessun paese, perché ha raggiunto la performance necessaria per contrastare in maniera efficace i cambiamenti climatici in corso, in coerenza con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi, e non superare la soglia critica di 1,5 gradi.
Al quarto posto, prima tra i perdenti, si classifica ancora una volta la Svezia grazie ad un’ambiziosa politica climatica e una continua crescita delle rinnovabili, seguita dalla Danimarca che fa un grande passo in avanti salendo di dieci posizioni rispetto allo scorso anno. Tra i paesi emergenti, l’India migliora ancora la sua performance posizionandosi al nono posto, grazie alle basse emissioni pro-capite e al considerevole sviluppo delle rinnovabili. La Germania fa un piccolo passo in avanti posizionandosi al 23esimo posto grazie alla recente approvazione del pacchetto clima, che prevede tra l’altro l’eliminazione graduale del carbone entro il 2038.
#ClimateChange Performance Index shows need for enhanced #ClimateAmbition & accelerated #ClimateAction: only 2 #G20 countries rank among “high”, while 8 G20 countries continue to rank under “very low”. Learn more about #CCPI2020: https://t.co/RbZefRfxXR#COP25 pic.twitter.com/5VTXZqSZ7a — Germanwatch (@Germanwatch) December 10, 2019
Anche la Cina registra miglioramenti e raggiunge il centro della classifica posizionandosi al 30esimo posto, grazie ad una politica climatica più incisiva e all’ulteriore sviluppo delle rinnovabili, ma la scarsa performance nella riduzione delle emissioni e nell’efficienza energetica continuano ad avere un peso negativo sul suo ranking.
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Per la prima volta l’Arabia Saudita (60) lascia il fondo della classifica agli Stati Uniti (61): con la presidenza Trump gli Usa continuano ad indietreggiare in quasi tutti gli indicatori compromettendo i passi in avanti degli scorsi anni. Tuttavia, segnali positivi giungono dall’inedita Alleanza per il clima – oltre tremila tra stati, città, imprese nazionali e multinazionali, università e college – che sta lavorando per mantenere gli impegni assunti a Parigi attraverso un’azione congiunta che va oltre le attività dell’amministrazione federale. Un altro segnale che il cambiamento dovrà necessariamente partire dal basso.
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