Un “monumento nazionale” intorno al Grand Canyon rilancia l’agenda verde di Biden per le elezioni?

Con la decisione di proteggere 400mila ettari del Grand Canyon dalle compagnie minerarie, il presidente degli Stati Uniti inizia un’opera di rammendo di una politica ambientale finora contraddittoria.

  • Il presidente Biden ha creato un monumento nazionale di 400mila ettari  attorno al Grand Canyon.
  • L’area è di inestimabile valore culturale e sprituale per i popoli nativi, ma è minacciata dai cercatori di uranio dell’industria mineraria.
  • Con questa misura Biden si riavvicina ai temi della crisi climatica e al suo elettorato, dopo una politica ambientale ondivaga.
  • Dall’altra parte del Congresso, la corsa alla presidenza dei repubblicani sta gettando i temi ambientali in pasto al negazionismo.

Il Grand Canyon come “monumento nazionale” per allontanare da questa terra sacra le mani dei cercatori di uranio. Lo ha annunciato solo qualche settimana fa il presidente degli Stati Uniti Joe Biden durante un viaggio in Arizona a inizio agosto nel quale ha parlato della creazione di un’area protetta di oltre 400mila ettari nei pressi del leggendario parco nazionale americano. La firma del documento che istituisce il quarto monumento nazionale della presidenza Biden segna un momento storico per i rappresentanti dei nativi americani, per i quali l’area conserva un inestimabile valore culturale e spirituale minacciato dagli interessi del settore minerario. Una mossa legata a doppio filo con la corsa alle elezioni presidenziali del 2024, durante la quale il presidente dovrà mettere a tacere le critiche per una politica ambientale fin qui contraddittoria.

Dal Grand Canyon parte il rilancio del green new deal di Biden

L’area individuata è composta da tre aree distinte a sud, nordest e nordovest del Parco nazionale del Grand Canyon. Confina con la zona di Kanab Creek nell’area nordoccidentale, con la riserva indigena Havasupai in quella sudoccidentale e la nazione Navajo a est. A questa enorme porzione di territorio verrà attribuito lo stesso status riservato a monumenti come la Statua della Libertà, opere architettoniche come ponte di Brooklyn o il caldissimo deserto di Sonora.

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“La tutela di queste terre non è solo buona per l’Arizona, per il pianeta: è buona per l’economia, per le nazioni sovrane. Credo fermamente che sia la cosa giusta da fare. Ma resta ancora molto da fare per lottare contro la minaccia fondamentale dei cambiamenti climatici“, ha detto Biden al seguito della firma che ha ufficializzato il nuovo monumento nazionale. Con queste parole il presidente ha proiettato il tema della crisi climatica e i punti dell’Inflation reduction act al centro della corsa alle elezioni presidenziali del prossimo anno. Un appuntamento che, a giudicare da come è andato il primo dibattito tra gli otto candidati repubblicani alla Casa Bianca, sembra configurarsi sempre di più come un referendum tra negazionisti e non.

L’area attorno al Grand Canyon protetta da nuovi interessi minerari

La firma sul documento che istituisce il monumento nazionale è arrivata nel bel mezzo di un importante viaggio fatto da Biden fra Arizona, New Mexico e Utah, durante il quale ha cercato di rinvigorire l’impegno nel contrasto ai cambiamenti climatici della Casa Bianca. Il territorio individuato dal governo porta il nome di baaj nwaavjo i’tah kukveni, che nella lingua dei nativi Havasupai significa “la terra delle tribù sulle orme dei nostri avi”. La designazione a “monumento nazionale” – più o meno l’equivalente delle nostre aree protette – di un territorio di grande importanza spirituale per i nativi americani, può essere sì considerato come un atto dal forte valore simbolico nel perimetro della campagna elettorale, che però punta a difendere il territorio da un ampliamento delle concessioni di estrazione dell’uranio “senza intaccare i diritti minerari esistenti”, ha precisato Biden. Il presidente ha dovuto affrontare una crescente pressione da parte delle tribù dei nativi americani e dei gruppi ambientalisti per proteggere queste terre, le cui riserve idriche sono già in sofferenza e ulteriormente minacciate perché ricche di riserve di uranio. Biden ha dunque rafforzato la moratoria ventennale imposta nel 2012 dall’amministrazione guidata da Barack Obama, che difficilmente potrà essere rimossa qualora una guida repubblicana dovesse prendere il posto dell’attuale presidente.

Grand Canyon
La grandiosa vista di cui si gode nel Grand Canyon National Park

Una decisione che ha fatto infuriare i repubblicani, molti dei quali rappresentano stati e aziende ricchi di minerali che accusano il presidente di fare poco per stimolare la produzione interna. Gli Stati Uniti stanno cercando di ridurre la dipendenza che ancora mantengono con l’estero – soprattutto con la Russia – per quanto riguarda l’uranio, metallo radioattivo fondamentale nella produzione dell’energia nucleare. In particolare il presidente della Camera delle risorse naturali Bruce Westerman, eletto in Arkansas, ha criticato l’amministrazione per aver bloccato l’attività mineraria in vari stati tra cui l’Arizona, dove ci sono “alcuni dei depositi di uranio più ricchi del paese”. Dal momento che anche l’energia nucleare rientra nel mix energetico contenuto nell’Inflation Reduction Act per abbandonare i combustibili fossili, ogni intervento a protezione di un patrimonio naturale attorno a cui gravitano interessi estrattivi utili al nuclare vengono utilizzati dai repubblicani per denunciare un attentato all’“autarchia energetica del paese”. In questo, la ricetta per l’ambiente di Biden si muove su un crinale molto delicato e sovente esposto alle critiche.

L’Inflation reduction act: finora, più economia che ambiente 

Il viaggio di Biden ha anche avuto lo scopo di rilanciare quello che in molti considerano la cartina tornasole del suo mandato, l’Inflation reduction act, firmato poco più di un anno fa con l’obiettivo di coniugare la lotta all’inflazione e quella alla crisi climatica. Sul piatto erano stati messi oltre 370 miliardi di dollari per ridurre le emissioni di gas serra del 40 per cento entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005. Un piano che però in molti considerano implementato solo per metà, cercando di abbassare i livelli di inflazione che erano stati il vero tema trainante delle elezioni di midterm.

La proposta di Biden sembra poi essersi arenata su un altro, fondamentale punto, che riguarda la comunicazione della propria agenda ambientalista verso gli elettori. Il lancio dell’Inflation reduction act era stato accompagnato dalle ambizioni di un nuovo green deal per gli Stati Uniti lacerati tanto dalle disuguaglianze sociali e dal razzismo quanto dalla siccità, gli incendi e gli uragani, ma ad un anno di distanza in pochi sembrano aver afferrato il messaggio di spinta alla transizione ecologica contenuto in quel pacchetto di politiche. Secondo un sondaggio del Washington Post e dell’Università del Maryland, circa il 71 per cento degli americani afferma di aver sentito parlare “poco” o “niente” dell’Inflation reduction act. Come se non bastasse, il 57 per cento degli americani disapprova la gestione dei cambiamenti climatici dell’attuale amministrazione. Non un bel primo compleanno per l’agenda verde del presidente.

Le macchie nere sull’agenda verde di Biden 

Con la difesa dell’area del Grand Canyon dagli interessi dell’industria estrattiva, Biden cerca inoltre di riacquisire credito elettorato giovane americano, non entusiasta dell’operato del presidente. Una parte dei gruppi ambientalisti ritiene l’amministrazione incoerente con le promesse fatte in campagna elettorale, quando Biden si era presentato come colui che avrebbe rimesso gli Stati Uniti sulla strada dell’ecologia dopo le selvagge politiche estrattive del trumpismo. Ma non è stato Trump ad approvare a marzo di quest’anno il progetto Willow, che consegnerà una vasta area incontaminata del nord dell’Alaska alle trivellazioni.

Come se non bastasse, ha fatto grande scalpore un report pubblicato dalla ong progressista Public Citizen, nella quale si evidenziava come nel suo primo anno alla presidenza Biden avesse approvato i media più concessioni minerarie di quanto fatto da Trump nei primi tre anni alla Casa Bianca. Un pessimo biglietto da visita.

Per i repubblicani il negazionismo climatico è più di una tentazione elettorale

Dall’altra parte del Congresso, il primo confronto collettivo tra gli otto candidati repubblicani alla presidenza ha fatto gelare il sangue a quel piccolo, sparuto, gruppo di repubblicani che chiede al partito di prendere una posizione diversa da quella apertamente negazionista dimostrata fino ad ora. Mercoledì 23 agosto a Milwakee, nello stato del Wisconsin, ai candiati è stato chiesto se la causa dei cambiamenti climatici fosse da imputare alle azioni dell’uomo, con riferimento ai tremendi incendi che hanno colpito l’isola di Maui alle Hawaii: nessuno di loro ha detto di sì.

Se l’ex vicepresidente Mike Pence e il governatore della Florida Ron DeSantis hanno, di fatto, evitato di rispondere, l’istrionico Vivek Ramaswamy – imprenditore farmaceutico più volte sostenitore di posizioni antiscientifiche – ha definito esplicitamente i cambiamenti climatici “una bufala”. Degli otto speaker, solo l’ex ambasciatrice statunitense alle Nazioni Unite Nikki Haley lo ha definito “reale”.

Una performance che ha irritato quella branca dei conservatori che sta chiedendo al partito di eleborare una strategia per conciliare le crescenti preoccupazioni sul clima – soprattutto nei giovani – con la base più vecchia dei conservatori, in gran parte arroccata su posizioni negazioniste: “Stiamo arrivando a un punto in cui i repubblicani stanno perdendo elezioni alla portata perché si stanno inimicando tutti coloro che hanno a cuore i cambiamenti climatici”, ha detto ad Associated Press Christopher Barnard, presidente repubblicano dell’American Conservation Coalition, il più grande gruppo ambientalista conservatore della nazione.

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