
Sono passati cinque anni dall’approvazione dell’Accordo di Parigi. Il bilancio dell’azione climatica da parte dei governi è fatto di luci e ombre.
Secondo l’Onu, le promesse di riduzione dei gas a effetto serra avanzate finora non basteranno a limitare la crescita della temperatura a 2ºC entro il 2100.
A partire dalla Cop 19, la Conferenza mondiale sul clima che si tenne a Varsavia nel 2013, i governi decisero di impegnarsi a dichiarare in modo ufficiale i propri impegni in tema di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. A poche settimane dalla Cop 21, che si terrà a Parigi a partire dal prossimo 30 novembre, sono 155 i paesi che hanno reso note le loro promesse. Esse, però, risultano molto diverse tra loro.
Se gli Usa hanno dichiarato, infatti, una diminuzione delle emissioni del 26-28 per cento, da ottenere entro il 2025 (rispetto al valore registrato nel 2005), l’Unione europea ha puntato ad un 40 per cento di calo, da raggiungere entro il 2030 (rispetto ai dati del 1990). Ancora, l’India ha puntato a una riduzione del 33-35 per cento, mentre la Russia vuole centrare un meno 25-30 per cento. E la Cina non ha promesso un calo, bensì un “picco massimo” da raggiungere entro il 2030. Alcuni governi, poi, hanno preferito utilizzare come punto di riferimento per calcolare la diminuzione non un anno, bensì il dato chiamato “business as usual” (“Bau”, nella tabella che riporta i dati dei quindici principali emettitori mondiali di gas nocivi): le diminuzioni sono calcolate, in questo caso, rispetto alle emissioni che si raggiungerebbero in futuro se non fosse effettuato alcun intervento correttivo.
Per tentare di fare un po’ di chiarezza, e per comprendere quanto valgano realmente, nel loro complesso, gli impegni annunciati, le Nazioni Unite hanno predisposto un rapporto, che tiene conto di 146 promesse (quelle inviate entro il 1 ottobre). La segretaria esecutiva della Unfccc (Convezione-quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), Christiana Figueres, ha spiegato che – ad oggi – tali promesse “porteranno a limitare la crescita della temperature media globale, entro la fine del secolo, a 2,7 gradi centigradi”. Ovvero ben oltre la quota-limite indicata dagli stessi governi, pari a 2 gradi, necessaria per evitare conseguenze catastrofiche.
Gli impegni, dunque, non sono sufficienti. Tanto più che le ong ritengono persino ottimistica la valutazione dell’Onu. Secondo Nicolas Hulot, presidente dell’omonima fondazione francese (nonché “inviato speciale” del governo di Parigi alla Cop 21), “allo stato attuale, supereremo la soglia dei 3 gradi centigradi”. Per questo, ha aggiunto, è necessario che i governi rivedano periodicamente i loro impegni in futuro: “I paesi del G20, responsabili di tre quarti delle emissioni globali, potrebbero assumere questa iniziativa, e ridefinire le loro promesse già a partire dal 2016 o dal 2017”.
I governi, però, appaiono ancora piuttosto divisi. E all’inizio di novembre è giunta anche la notizia, inaspettata, della revisione al rialzo dei propri dati sull’inquinamento da parte della Cina. Il più grande responsabile di emissioni di gas ad effetto serra a livello mondiale ha ammesso infatti di aver sottostimato, fortemente, l’utilizzo di carbone sul proprio territorio. Ciò significa che nelle statistiche fin qui pubblicate mancava circa un miliardo di tonnellate di CO2 disperso nell’atmosfera. Pari alle emissioni annuali di un paese come la Germania.
Sono passati cinque anni dall’approvazione dell’Accordo di Parigi. Il bilancio dell’azione climatica da parte dei governi è fatto di luci e ombre.
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